La passione per Sergei Eisenstein Greenaway ce l’ha sin da ragazzo, folgorato dalla visione di Sciopero quando aveva diciassette anni, da allora non solo ha guardato tutti i film del regista sovietico ma ha anche divorato i suoi scritti, visitato gli archivi a Mosca, viaggiato nei luoghi dove Eisenstein ha girato, letto biografie, libri su di lui. L’idea di questo Eisenstein in Messico dunque il regista inglese la coltivava da tempo, più attratto dai «misteri» estetici della sua opera che dalla ricostruzione biografica, e in particolare dall’idea di trovare una spiegazione alla differenza tra i primi capolavori di Eisenstein (Sciopero, La corrazzata Potemkin, Ottobre) e gli ultimi (Aleksandr Nevskij, Ivan il Terribile, La Congiura dei boiardi).

 

 

Per questo Greenaway si immerge negli anni in cui Eisenstein è lontano dall’Unione sovietica, dal 1929 al 1932, in viaggio tra l’Europa e l’America fino al Messico dove rimane un anno, e insieme al suo operatore, Tisse, si dedica a uno dei suoi film più «maledetti»: Que viva Mexico!. Lo produceva l’americano Upton Sinclair, sedotto dal genio di Eisenstein, ma il contratto venne rotto prima che il film finisse (per intervento dei sovietici) e il montaggio affidato a altri. Ma se non è una biopic, il film di Greenway non cerca neppure di ricostruire con «fedeltà storica» quei giorni, pure se dentro vi si rincorrono moltissime figure «vere», a cominciare da quella della guida messicana Palomino Canedo, insegnante di religioni comparate che tra teschi di zucchero e scheletri danzanti, banditi e strade accaldate della cittadina di Guanajuato, svela a Eisenstein la rivoluzione del sincretismo culturale, non dogmatico ma del piacere, sensuale e provocatorio come la siesta nel pomeriggio.

 
Ed è questa la scommessa di Greenway, rendere immagine «i dieci giorni che sconvolsero Eisenstein», la storia d’amore intensa con Palomino, e gli odori, i colori, le allucinazioni da peyote in che più del montaggio delle attrazioni allargano le percezioni sensoriale espandendo anche i confini intimi del regista che il governo sovietico ha messo sotto controllo, poco incline a tollerare il pensiero non addomesticabile (e visionario) delle avanguardie (difatti azzerate).

 
È un Messico di spie e di tradimenti, quello del mito rivoluzionario di Frieda Kahlo, e degli artisti di cui scriveva Tina Modotti, di agenti del Kgb che controllano il regista e di agenti americani che controllano la rivoluzione. Di cameriere intriganti, banditi da film, personaggi ineffabili, filosofi e poeti, e mentre il suo vestito di lino si logora sempre più Eisenstein scopre – come racconta all’amica in lunghe telefonate in patria, «il paradiso». Lo scandalo sono i suoi disegni erorici e la libertà di rovesciare ogni gender.

 

 

Greenway costruisce una macchina teatrale monumentale dentro la lussuosa stanza d’albergo in cui Eisenstein si chiude con l’amante, intorno al letto galleggiano nell’aria di lunghi pomeriggi sensuali teorie, ribellioni, paure, e la chioma scomposta, quasi cubista, di Elmer Back con la sua faccia da bimbo stupefatto di sé. Presente e futuro si fondono, eroso, vita, morte. Premonizioni tragiche e clash temporali, gli archivi dei film e delle facce «vere»,il bianco e nero e il colore, le foto di Eisenstein e la sua messinscena. A volte manca il respiro, e si ha l’impressione di essere storditi come Eisenstein, ma forse il gioco è anche questo.