I lockdown vissuti durante la pandemia hanno innescato un forte desiderio di spazi aperti e contatto con la natura, bisogno che, unito alla possibilità di lavorare a distanza, ha portato molti a lasciare le grandi città per trasferirsi nei piccoli centri e borghi storici di cui è disseminato il nostro Paese. Nel corso dell’ultimo anno, secondo le stime di un’indagine commissionata da Facile.it a mUp Research e Norstat, circa 400 mila persone, approfittando dello smart working hanno scelto di abbandonare la città dove lavoravano, con una tendenza, particolarmente forte in Lombardia e Lazio, a prediligere i piccoli comuni all’interno della propria Regione. Ciò ha portato conseguenze positive anche per l’ambiente, in primis perché i comuni fuori dalle aree urbane svolgono un ruolo cruciale nel presidio e nella cura dei territori e delle relative risorse. Ma è ipotizzabile che una volta finita l’emergenza sanitaria questi luoghi possano tornare a essere delle micro città in grado di ospitare una parte importante della popolazione italiana? Ne abbiamo parlato con l’architetto Stefano Boeri e con la vicepresidente di Legambiente Vanessa Pallucchi, scoprendo che quella dei borghi, ad alcune condizioni, sarebbe una rivoluzione possibile.

CON LE REGOLE E I DIVIETI imposti dal virus la maggior parte delle attrattive della città, dall’offerta artistica e culturale alla possibilità di interazione sociale, è stata spazzata via. Anche per questo molti tra coloro che ne hanno avuto la possibilità hanno scelto di migrare verso tranquilli paesini circondati dal verde. Ma perché proprio i borghi e i piccoli centri rappresentano un’alternativa potenzialmente ricchissima per chi è alla ricerca di uno stile di vita diverso da quello cittadino?

«INNANZITUTTO – RISPONDE Stefano Boeri – perché i borghi storici sono stati piccole città. Oggi non lo sono più perché vittime di processi di abbandono e degrado, ma di questo passato conservano ancora la forma e la compattezza; anche oggi al loro interno si può trovare la gerarchia tipica degli spazi di un centro storico: la piazza centrale con il municipio e la chiesa, il tessuto residenziale denso e i piani terra commerciali».

TRASFERIRSI DALLE CITTA’ ai piccoli centri ha poi innumerevoli lati positivi sul piano della qualità della vita, si affrontano costi generalmente inferiori, è possibile avere un rapporto diretto con la natura e si hanno disposizione prodotti alimentari migliori. «Poi c’è un altro vantaggio – prosegue Boeri – e faccio un solo esempio: La Madonna del Parto, capolavoro del Rinascimento di Piero della Francesca, si trova a Monterchi, non a Firenze. I piccoli centri fuori dalle nostre città custodiscono un patrimonio artistico e architettonico qualitativamente incredibile. Tornare in questi luoghi vuol dire riscoprire una parte bellissima della nostra storia, del nostro Dna».

E ANCORA, I BORGHI STORICI per via delle loro dimensioni contenute rappresentano spazi in cui è più facile che si sviluppi un autentico senso di comunità. «Il ritorno ai piccoli centri, che dal 28 maggio al 2 giugno Legambiente ha celebrato con la 18esima edizione della festa Voler Bene all’Italia, nasce anche dal bisogno di identificarsi con il luogo in cui si vive e con l’attività produttiva che si svolge – afferma la vicepresidente dell’associazione Vanessa Pallucchi. «In questo senso – spiega – ci sono tantissime storie da raccontare, storie di persone che dopo aver perso il lavoro in città come Roma e Milano hanno messo su piccole aziende virtuose che vendono online, generando un’economia che non è di grande scala, ma è più democratica, di prossimità e qualitativamente superiore».

SE L’ELENCO DEI VANTAGGI DI VIVERE nei piccoli comuni è molto lungo, è però innegabile che ci sia anche un altro lato della medaglia. La migrazione urbana iniziata una cinquantina di anni fa ha lasciato questi luoghi in balia dell’incuria, con conseguenti danni legati al dissesto idrogeologico. Nei decenni, poi, questi centri hanno visto venire meno una serie di servizi essenziali, linee ferroviarie, scuole e presidi sanitari.

E PIU’ DI RECENTE LA DIFFERENZA rispetto alle città è stata accentuata ancora di più dal digital divide. In ogni caso l’obiettivo di ridare vita ai borghi storici non è un sogno romantico utile solo a esorcizzare gli incubi della pandemia, ma nasce dalla consapevolezza che questi luoghi hanno un’importanza strategica e strutturale. «I piccoli centri – prosegue Pallucchi – sono numericamente maggiori, su 7914 comuni, in Italia 5498 sono di piccole dimensioni, hanno meno abitanti ma, in realtà, avrebbero bisogno di essere ripopolati per poter governare il loro vastissimo territorio, ricco di sorgenti, fiumi, boschi e foreste». E di presidio sociale sulle risorse ambientali parla anche Stefano Boeri: «Una delle perdite subite negli ultimi anni è legata al fatto che abbiamo smesso di prenderci cura di campi coltivati e boschi attraverso un’agricoltura e una pastorizia sane e una selvicoltura naturalistica. Stiamo parlando di migliaia e migliaia di ettari di suolo abbandonati e per questo più esposti al rischio di frane, smottamenti, fenomeni idrogeologici, oggi accentuati dagli sbalzi climatici».

IL RIPOPOLAMENTO DEI PICCOLI COMUNI, oltretutto, sarebbe vantaggioso anche per le stesse città. «Quando a causa dello smart working e della didattica a distanza migliaia di persone hanno lasciato capoluoghi come Milano, Roma o Bologna, questi trovandosi in difficoltà hanno messo in atto un cambiamento – spiega Pallucchi -. Le città, decongestionate, potrebbero tornare a diventare poli centrali collegati con i territori rurali, come i contadi nel medioevo. L’Italia ha già questa struttura: al contrario di altri Paesi non abbiamo grosse aree disabitate. Fino ad ora città e campagna hanno rappresentato due modelli alternativi, oggi invece il loro rapporto dovrebbe essere osmotico».

IN GENERALE LO SPOSTAMENTO di una parte della popolazione verso i piccoli centri mette in discussione anche il modello delle città: di fatto si tratta di due rivoluzioni parallele che vedono al centro l’esigenza di uno stile di vita più eco sostenibile e basato sulla prossimità. Non è un caso se Milano e Parigi stanno entrambe puntando a diventare città a 15 minuti, ovvero luoghi dove tutti i servizi – scuole, ambulatori medici, ma anche teatri e laboratori digitali – diventano accessibili nel raggio di un quarto d’ora a piedi o in bicicletta. Ad uscirne valorizzato è il quartiere, una dimensione che se vissuta appieno permette di ridurre gli spostamenti e quindi traffico ed emissioni inquinanti (nonché stress), restituendo tempo e maggiore libertà alle persone.

«IL RECUPERO DI BORGHI STORICI va costruito insieme e non contro o dimenticandosi delle grandi città – sottolinea Boeri -. Perché quello che io credo che oggi vada favorito non è l’abbandono delle città o la scelta nostalgica di tornare a una vita campestre. Penso che la sfida sia molto più alta, cioè provare a delocalizzare la vita urbana, vivendo e lavorando per parte della settimana in un borgo storico, sentendosi all’interno della sua comunità, ma continuando a mantenere un rapporto stretto con la città dove magari si torna un paio di volte alla settimana per confrontarsi con i colleghi. Si tratta di accettare la prova di un sostanziale cambiamento che io riassumo con lo slogan le città che diventano arcipelaghi di borghi urbani e i borghi urbani storici che tornano a essere piccole città. I borghi non devono essere recuperati come gusci vuoti o come spazi del turismo elitario o mordi e fuggi, ma come luoghi di vere comunità di vita. Al contempo, le città sono da ripensare come città di quartieri, di borghi urbani contemporanei, decentrando i servizi al cittadino, accrescendo le superfici verdi vegetali, desincronizzando le attività dei grandi poli produttivi terziari e commerciali e riducendo le congestioni causate dal tradizionale pendolarismo di ingresso e uscita dalle città. Questo renderebbe più fluidi i tempi e i flussi di lavoro e sarebbe un enorme vantaggio dal punto di vista della qualità dell’aria oltre che, in generale, della vita».

MA SE QUELLA DEI BORGHI – E DELLE CITTA’ – è una rivoluzione possibile, quali sono gli strumenti per promuoverla? Il primo passo è colmare il divario digitale: con una connessione veloce anche i territori più remoti potrebbero attrarre lavoratori in smart working, universitari e imprese. Ad essere imprescindibile sarebbe anche un potenziamento dei servizi e dell’accessibilità.

«I TRE ASSI DI INVESTIMENTO su cui noi da sempre ci battiamo – mette in luce Pallucchi di Legambiente – sono digitalizzazione, sanità e scuola. Poi è importante anche il riconoscimento delle aziende che garantiscono lavoro in queste aree, così come il potenziamento delle infrastrutture, ad esempio delle ferrovie in aree già preposte, e delle fonti energetiche rinnovabili, con la creazione di comunità in grado di autoprodurre e generare energia per la vendita. All’interno del Pnnr tutto questo, però, andrebbe incentivato. Invece di pensare a fondi per le trivelle o per il ponte sullo stretto, sarebbe prioritario portare la banda larga a tutta la popolazione che vive in questi territori».

PER FAVORIRE IL RIPOPOLAMENTO dei borghi storici, afferma Stefano Boeri, «servono una connettività digitale totale, la creazione di strade facili e accessibili, il potenziamento dell’alta velocità, il ripristino delle linee ferroviarie dismesse, ad esempio quelle appenniniche, e il decentramento dei servizi essenziali. Poi un’altra condizione fondamentale è la possibilità di intervenire anche in modo radicale sugli spazi interni: molti di questi luoghi, che sono dei capolavori architettonici e morfologici, hanno però spazi interni che sono assolutamente inadatti agli stili di vita contemporanei. Per questo in alcuni centri stiamo proponendo interventi importanti per rendere abitabili gli interni pur mantenendo intatti i materiali e l’architettura degli edifici».

SE LE CONDIZIONI PER UN RITORNO alla vita dei piccoli comuni ci sono, questo è però un fenomeno, sottolinea l’architetto, che va governato: «Il rischio, altrimenti, è che si ripeta quella delocalizzazione basata sulla costruzione di residenze familiari, palazzine e villette, che ha trasfigurato l’Italia tra gli anni ’70 e ’90, quando famiglie, individui e piccole imprese si sono spostati costruendo ovunque una moltitudine caotica di edifici solitari. È quella che io chiamo l’anticittà, ovvero un paesaggio senza gerarchie e senza senso di appartenenza ad una comunità. Se dobbiamo perdere quote di popolazione nei centri urbani, lavoriamo su quelle piccole città che già c’erano, senza costruire un metro cubo in più, senza consumare suolo e anzi recuperando quello straordinario patrimonio urbanistico e architettonico che sono i piccoli centri delle aree interne: questa è la grande sfida».
Il concetto chiave perché questo ambizioso progetto si realizzi per Boeri è contratto di reciprocità, un modello già utilizzato in Francia che vede collaborare insieme sindaci delle città e dei borghi, rettori degli atenei, responsabili di azienda e proprietari delle grandi catene di distribuzione. Nell’ambito di questo accordo, la ristrutturazione di un piccolo borgo può ad esempio essere finanziata da una grossa azienda che in cambio vede la realizzazione di spazi abitativi e di coworking per una parte dei propri dipendenti o dirigenti; oppure il recupero di alcuni palazzi storici può essere seguito da un’università alla quale viene intanto offerta la possibilità di farli abitare parzialmente da alcuni dei suoi studenti; o ancora, le produzioni agricole locali di qualità possono essere sviluppate nei territori di questi comuni ma con la garanzia che poi vengano vendute dalle catene commerciali nelle aree urbane e metropolitane.

SE L’EMERGENZA SANITARIA HA RESO evidenti i limiti della vita nelle città, il ripopolamento dei piccoli comuni rappresenta un’alternativa non solo possibile ma anche auspicabile dal punto di vista ambientale, perché, oltre a favorire la cura dei territori, consentirebbe di tornare ad abitare degli spazi già esistenti e ricchi a livello artistico e architettonico, evitando di costruire ancora e quindi scongiurando il consumo di suolo. Il rapporto con le città, poi, potrebbe vedere un fruttuoso scambio di risorse e lavoro, che gioverebbe sia ai grandi centri sia ai piccoli comuni. Perché questo avvenga sono necessari un disegno politico e investimenti che permettano di superare i limiti che questi territori vivono per la carenza di servizi e la scarsa accessibilità, anche digitale.