Un tuk tuk si libra in aria intorno al palazzo abbandonato del «Turkish Restaurant», in piazza Tahrir, la sua scia è la bandiera irachena che avvolge i manifestanti. È uno dei murales apparsi in questo mese di mobilitazione popolare nelle città irachene: il protagonista indiscusso è lui, il tuk tuk. Tre ruote diventate il simbolo della rivoluzione, l’eroe della piazza, già meritevole di canzoni e graffiti.

E dire che fino all’inizio di ottobre il tuk tuk era simbolo di ben altro: di povertà, di marginalizzazione. Lontanissimo dallo standard dei taxi «veri», quelli che la classe bassa non può mica permettersi. I suoi autisti sono altrettanto poveri, con il tuk tuk portano a casa magre giornate. Sono i mezzi dei quartieri più miseri, piccoli abbastanza da farsi largo nel traffico.

Ma ora sono eroi: sono quelli che in piazza Tahrir a Baghdad, a mo’ di ambulanza, si lanciano in mezzo ai proiettili e ai lacrimogeni (letali: venerdì una ragazza è stata uccisa, come decine di manifestanti prima di lei, da un candelotto della polizia, che mira alla testa come farebbe un cecchino) per portare in salvo i feriti.

Li accompagnano nelle tende del presidio dove medici e infermieri volontari hanno messo su cliniche ambulanti. I social sono pieni di foto e video di tuk tuk con su la bandiera irachena, veloci come schegge dal ponte sul Tigri alla piazza, sempre più colorati dai messaggi di quella che è vissuta come una rivoluzione. O ripresi mentre riposano tra le tende del sit-in, tra ragazze che usano gli specchietti per truccarsi e altre che distribuiscono cibo ai manifestanti.

Hussein ha appena 17 anni e vestiti malandati. È di Sadr City, il cuore dello sciismo politico della capitale. Al Washington Post racconta il suo arrivo nella piazza: «Sono qui per fare la mia parte nella rivoluzione. Sentivamo di essere necessari e abbiamo risposto».

È stato ferito anche lui, alla gamba, da un candelotto: «Non mi piaceva il modo in cui la gente ci guardava prima. Ma questa rivoluzione è contro tutto, anche contro il modo in cui eravamo guardati. Siamo tutti essere umani». «Sono i fiori di questa città – dice di loro Sama, studentessa di medicina e ora volontaria in piazza Tahrir – Sono veri eroi. Gli chiedo scusa».

(Foto: Afp)

 

Dopo la manifestazione di venerdì, 200mila persone solo nella capitale – cristiani e sciiti, ragazze con e senza velo, anziani e adulti che preparano pasti caldi – il presidio non smobilita. Neppure a sud dove tre giorni fa migliaia di manifestanti hanno bloccato l’ingresso al porto di Umm Qasr, a Bassora.

Sono ancora lì: hanno issato blocchi di cemento e dato fuoco a copertoni per non perdere posizione. Almeno 120 i feriti negli scontri con la polizia, secondo l’alta Commissione irachena per i diritti umani. Eppure resistono: da mercoledì dallo scalo commerciale non esce nulla, mentre si alzano slogan contro l’Iran e gli Stati uniti, ritenuti responsabili del sostegno a un governo che nega alla gran parte della sua popolazione un vita dignitosa.

Il 60% degli iracheni vive con meno di sei dollari al giorno, non ha accesso a servizi pubblici regolari né a posti di lavoro nel principale settore economico, quello energetico, occupato dalle compagnie petrolifere straniere.

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Da Mosul Eye: «Nuova parola del vocabolario iracheno. Tuk tuk: coraggio, lavoro di squadra. Es: Lui/lei tuktukka per il bene comune. Lato negativo: tentativo di uno straniero di farsi un selfie con un tuk tuk o di scriverci un articolo». Come il nostro.