Per decenni hanno subito in silenzio sottostando alle minacce e pagando il pizzo alla mafia. Un cancro che non ha risparmiato niente e nessuno: imprese edili, negozi di mobili e di abbigliamento, frutterie, sale giochi, pescherie, centri scommesse. Chiunque avesse un’attività in grado di fruttare anche il minimo guadagno doveva pagare una percentuale degli incassi alle cosche di Bagheria, in provincia di Palermo. Fino al giorno della riscossa, quando 36 imprenditori si sono fatti coraggio e hanno denunciato i mafiosi che li taglieggiavano. Il risultato di questo atto di coraggio si è avuto ieri mattina, quando i carabinieri di Palermo hanno arrestato 22 tra boss e gregari, molti legati a Bernardo Provenzano, assestando così un colpo durissimo alla mafia locale. «Il vento è cambiato, in questa città l’onestà sta tornando di moda», ha commentato il sindaco di Bagheria, Patrizio Cinque, eletto nelle lista del M5S. «Sul corso principale abbiamo affisso un cartello con la celebre frase di Peppino Impastato: “la mafia è una montagna di merda”. Ecco noi quella montagna la stiamo scalando».
Le indagini, coordinate dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Leonardo Agueci e dai pm della Dda Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, sono cominciate nel 20113 e si sono avvalse, oltre che delle denuncie dei 36 imprenditori, anche della testimonianza resa ai magistrati da un pentito, Sergio Flamia, che ha permesso di ricostruire la mappa dell’estorsione in città. «Il dato che più deve essere evidenziato – ha spiegato il procuratore aggiunto Agueci – è che sono state documentate diverse estorsioni protratte nel tempo e una sorta di staffetta per riscuotere il pizzo, con i nuovi che subentravano a quel che man mano sono stati arrestati». Il pizzo sarebbe stato chiesto anche all’aggiudicatario di un appartamento all’asta giudiziaria.
Un ricatto in alcuni casi durato decenni. Come testimonia un imprenditore edile che ha raccontato ai magistrati di aver cominciato a pagare negli anni ’90 e di non essere più riuscito a non pagare, vedendosi persino costretto per 10 anni a versare tre milioni di lire al mese alla famiglia del reggente del mandamento mentre era in carcere, oltre a dover pagare al sodalizio significative percentuali sugli appalti aggiudicati. «Da lì – raccontano gli inquirenti – l’inizio di un’odissea che ha ridotto sul lastrico la vittima, costringendola a cessare l’attività e a vendere la propria abitazione per far fronte alle perduranti richieste estorsive». In Sicilia sono 1.148 le aziende confiscate alla criminalità organizzata, che se era impossessata grazie anche alle attività di estorsione e racket nei confronti degli imprenditori.