Figura di rilievo nel panorama intellettuale e letterario degli anni venti e trenta, Yokomitsu Riichi pubblicò Shanghai (traduzione di Costantino Pes, Atmosphere, pp. 242, euro  16,00) fra il 1938 e il 1931, sulla rivista «Kaizo», a puntate secondo l’uso editoriale dell’epoca. Il Giappone si era ormai lasciato alle spalle i travagli del periodo Meiji, e finalmente si vedeva approdato alla modernizzazione, sospeso fra il ricco fermento intellettuale dell’era Taisho (dal 1912 al 1926) e l’emergente nazionalismo del primo Showa, il cosiddetto «periodo di pace illuminata» che andò dal 1926 al 1989, e che avrebbe visto negli anni successivi lo stesso Yokomitsu fra i suoi più incisivi sostenitori.

Shangai tuttavia riflette una certa ambiguità nei confronti sia del paese e dell’imminente svolta imperialista della sua politica internazionale, sia della modernità, che nel romanzo ci appare come una sorta di corpo grottescamente deforme. L’ambivalenzadel Giappone si risolve nel fatto che in Asia si presenta come alternativa all’Occidente, ma in realtà di quest’ultimo ripropone le politiche aggressive e le istanze allo sfruttamento. Vera protagonista della narrazione è la Shanghai del 1925, la città più cosmopolita di tutta l’Asia, crocevia di interessi giapponesi, cinesi, europei, russi e americani, un mix disordinato e fluido di oriente e occidente, lusso e squallore, modernità e pre-modernità, prosperità e declino. Ed è nel reticolo dei vicoli della città cinese e dei più moderni viali affiancati da eleganti edifici di sapore europeo, che gli operai cinesi impiegati nell’industria tessile – di proprietà perlopiù giapponese – non sopportando oltre le dure condizioni di lavoro, danno inizio a uno sciopero destinato a sfociare alcuni mesi dopo in quello che è ricordato come il Movimento del 30 maggio.
Il 15 dello stesso mese, infatti, truppe giapponesi avevano ucciso un operaio cinese, e il 30 altre truppe, sotto il comando inglese, avrebbero fatto irruzione uccidendo alcuni dimostranti durante una manifestazione. Da qui, la protesta si allargò fino a trasformarsi in uno sciopero generale contro la presenza imperialista. È questo lo sfondo su cui si muovono i personaggi del romanzo, in particolare Sanki, un impiegato di banca giapponese, e Otsugi, attendente in un bagno pubblico.

Entrambi, come conseguenza del caos che ha invaso la città, perdono il lavoro e si ritrovano a scendere uno dopo l’altro i gradini della scala sociale, fino a perdersi nei bassifondi, incontrando nella loro caduta una serie di personaggi, ognuno con la propria storia e il proprio bagaglio di sofferenze: Miyako, la ballerina giapponese circondata da una folla di ammiratori europei e americani; Olga, l’aristocratica russa in esilio; Fang Quilan, una dei leader del partito comunista cittadino.

Yokomitsu, che scrive Shanghai al ritorno da un breve soggiorno in Cina, sembra essere affascinato dalla condivisione, da parte di tante etnie e nazioni straniere, di un unico, ristretto contesto urbano, che finisce per interiorizzare la dimensione dell’alterità, somatizzandola in una frattura nella forma dello stato nazionale da cui deriva la città più moderna al mondo, un condensato dei più significativi problemi culturali posti dalla modernità.
Non solo Shangai rappresenta fisicamente l’intersezione fra Europa e estremo oriente ma è anche, come si è detto, il simbolo vivente dell’ambivalenza del Giappone in e verso l’Asia. In questa prospettiva il romanzo offre una riflessione – condotta anche attraverso l’uso sapiente di una lingua e di una grammatica narrativa spezzate e quasi ridotte a frammento – sull’identità nazionale e sul ruolo del paese, al tempo stesso potenza imperialista, e quindi omologata all’occidente, e cultura asiatica, quindi non occidentale.