Non sempre la grandezza coincide con la popolarità, nel mondo delle note popular afroamericane in varia declinazione, dal jazz al songwriting d’autore. È quasi un luogo comune. La celebratissima vetrina dell’eccellenza pop di Woodstock 1969, cinquant’anni fa (più ex post che contemporanea, per: i miti popular si costruiscono sui media, non sull’»io c’ero») notoriamente escluse, per varie ragioni, figure come Bob Dylan, Beatles, The Doors, Frank Zappa, Leonard Cohen. E Tim Buckley. All’anagrafe Timothy Charles Buckley II. Il più avventuroso e spericolato autore di canzoni al limite tra i generi che il paese a stelle e strisce abbia conosciuto. Amatissimo, per l’appunto, da uno dei grandi assenti a Woodstock, Zappa stesso, che ne condivise qualche volta musicisti e, per certi versi, idee musicali. Simbolo di una California che osava per davvero il grande sogno della libertà anche liberando la voce dall’educata bonomia dei sussurri intonati, rotondi e perfetti, per approdare a una vertiginosa terra di nessuno vocale dove la voce tornava ad essere pura espressione poetica e trance. Dal basso più profondo al falsetto di soprano in una frazione di secondo. Tim Buckley, cinque ottave e mezzo di euforica e stregante estensione vocale e una chitarra dodici corde tra le mani, padre di un’altra grande voce estrema accomunata dalla stessa implacabilità di destino, la scomparsa precoce: il figlio Jeff che ha lasciato un solo disco compiuto (un capolavoro) e la fine della dittatura dei «figli d’arte» indegni dei padri.

IL MANCATO INVITO

Tim Buckley a Woodstock non andò, non fu neppure invitato. Ma si prese la sua rivincita nei primi giorni di settembre del 1969, cinquant’anni fa, con un ciclo di concerti al Troubadour di Los Angeles destinati a diventare palpabile e verificabile leggenda, e di recente restituiti alla loro integrità complessiva con riedizioni tanto accurate quanto struggenti, nello sforzo di rendere l’infinita ricchezza di voce e la mercuriale plasmabilità dei brani scritti da Tim Buckley. Il primo disco di Buckley dal vivo che ci restituisce molto della sua presenza nuda, cruda e immensamente poetica su un palco fu Dream Letter, inciso nel 1968, e pubblicato nel 1990, a quindici anni esatti dalla sua morte. Sul palco Tim si trovò accanto Danny Thompson dei Pentangle, che così lo ricorda: «Lui non parlava mai di musica, di arte, e di come un brano avrebbe dovuto essere eseguito, ma mise in chiaro che avevo la libertà di suonare come volevo. Alla Queen Elizabeth Hall non avevo neppure le parti, davanti. La cosa pazzesca della spontaneità è che può essere incredibilmente brillante se le cose funzionano. Tim improvvisava moltissimo: non ha mai cantato una canzone in modo routinario. Mi ricordo che una volta dovevamo registrare una partecipazione a uno show televisivo, e dopo aver provato a lungo con l’operatore tutti i movimenti di camera previsti per un brano, Tim si presentò davanti al pubblico, millecinquecento persone, mi guardò e disse: “Facciamo un’altra canzone”, un brano neppure provato, e che alla fine sforò di due minuti il tempo previsto. Il tipo furioso si fece avanti con un dito puntato alla gola di Tim, che ricambiò con un’occhiata perplessa, come a dimostrare che la creazione del momento e l’arte erano la cosa importante, non tutta la pantomima delle riprese. Poi, nel ’94, arrivò Live at the Troubadour 1969, e fu una benedizione: tempi dei brani dilatati fino ai fantasmagorici quattordici minuti di Gypsy Woman e agli undici di I Don’t Need it to Rain. Lo sforzo, ricorda nelle note originali del disco Martin Aston, fu quello di non «duplicare» i brani di Dream Letter, anche se ogni interpretazione di Tim Buckley prendeva vie di fuga dalla mera ripetizione che lasciavano allibiti gli ascoltatori, e qualche (apparente) doppione ci sarebbe stato benissimo. Aston si chiedeva, nelle note, se ancora esistesse altro materiale da quelle serate di inizio settembre a Los Angeles: che, oltre al trionfo della vocalità più intensa mai ascoltata in ambito popular, regalavano il maiuscolo reticolo di folk-jazz intessuto dal suo gruppo. La chitarra e il piano elettrico Fender di Lee Underwood, le congas di Carter Collins, il basso di John Balkin, uscito dalla Juilliard School of Music, l’uomo che avrebbe costruito i suoni più sperimentali degli ultimi grandi dischi di Buckley, la batteria di Art Trip, all’epoca anche attivo con l’esigentissimo Frank Zappa. Qualcosa di tentato, all’epoca, forse solo dai Pentangle inglesi, ma senza una voce «aliena» come quella di Buckley.

MATERIALI

Il materiale integrale di quegli show al Troubadour in realtà c’era. Era conservato negli archivi personali del produttore originale, Herbie Cohen. In quegli show incandescenti Tim Buckley aveva fatto una sorta di «prova generale» per testare brani che avrebbero poi trovato posto in due dischi capolavoro: Anonymous Proposition (sui nastri ritrovati indicato come Slow Samba) e Lorca, indicato genericamente sulle scatole come 5/4. Nel mezzo propose anche brani mai più apparsi nella sua discografia, dunque unici in questa veste «live». Ad esempio (I Wanna) Testify, costruito con ogni evidenza sullo scheletro di una antico brano gospel. Il tutto venne raccolto un paio d’anni fa in tre nuovi cd, un doppio e un singolo: rispettivamente Venice Mating Call, e Greetings from West Hollywood. Una specie di miracolo arrivato dal cielo, per i fan di Tim Buckley sempre a caccia di nuove testimonianze della voce da angelo-demone del songwriter.
Nei concerti del Troubadour Tim si prende libertà inusitate, quasi da jazzista. È reduce dalle sedute di incisione per Happy Sad, che avevano spostato l’asse estetico dal folk al jazz: scompone interi blocchi di testo, e li rialloca scientemente da una canzone all’altra, incita e invita la band a inoltrarsi in lunghe improvvisazioni modali basate su «vamp» di poche note, e dall’effetto incantatorio. Ricorda Lee Underwood: «C’erano dei luoghi speciali della musica che Tim conosceva e in cui sui sentiva a suo agio. Sapeva che lì, sulla base di quei giri di accordi e su quei ritmi poteva improvvisare come voleva». E loro lo capivano, e lo seguivano. Alla base c’erano le antenne sensibili di Tim: che, ricorda sempre Underwood, aveva una conoscenza e un rispetto quasi maniacale per Miles Davis e il suo percorso avventuroso di avvicinamento alle note elettriche, «terra di nessuno» tra jazz, rock, musiche folk tradizionali. Due mesi prima di questi show era uscito In a Silent Way, il meraviglioso e inquietante notturno di Miles concepito da Joe Zawinul con le sue tastiere elettriche: Tim aveva praticamente consumato i solchi del vinile. E qui troviamo il punto di raccordo con gli show di Tim, nell’uso del piano Fender per piccoli blocchi allusivi di accordi, alla Zawinul da parte di Underwood. «Posso dire che, in quei concerti, ci stavamo senza saperlo muovendo verso l’avanguardia, il cui primo esito fu l’album Lorca – racconta Underwood -. È importante ricordarlo perché non salimmo sul palco con il consueto lavoro preparatorio brano per brano. Il senso era quello di ricavare una sorta di jam session allargata che aveva radici in Happy Sad, ma in cui Tim voleva sperimentare quella sorta di «vocalità astratta» che l’avrebbe portato a Lorca e, soprattutto, a Starsailor. Il «viaggiatore delle stelle»: tale è rimasto, nei cuori, Timothy Charles Buckley II, detto Tim.