Quasi cinquantamila visitatori, con un incremento del 15% rispetto all’anno scorso, diverse new entry seguite però dalla persistenza di alcune defezioni che scottano (soprattutto, il giro delle gallerie che contano milanesi cui si possono aggiungere assenze come quelle di Alfonso Artiaco di Napoli, Persano e Tucci Russo per Torino) e un giro di affari che si è aggirato intorno ai trentacinque milioni di euro.

Nonostante sia stretta nella morsa del proliferare di altri appuntamenti – in Italia Artissima e Miart, all’estero una infinità, con mète che stanno per diventare «classiche» come Singapore – Artefiera 2014 chiude tracciando con un bilancio positivo. «Non ha i conti in rosso, ha sviluppato un utile di settecentomila euro e ha utilizzato parte di quel guadagno per rilanciare gli eventi culturali della città di Bologna», dice il direttore Claudio Spadoni, che guida la kermesse insieme a Giorgio Verzotti per il secondo anno consecutivo, navigando verso il terzo, il 2015. Sui «vuoti» che si notano, gli stand vacanti, il commento aggira qualsiasi sguardo à rebours: «Nessuno si strappa i capelli; tenteremo di recuperare alcune gallerie, ma siamo anche consapevoli che probabilmente c’è un disegno per potenziare le altre fiere e depotenziare un concorrente come quello bolognese che, per volume di affari, resta comunque il primo».

I segnali di ripresa sono testimoniati da quasi tutti i galleristi interpellati, ma restano alcuni nodi mai sbrigliati a rallentare il grafico economico: la burocrazia del Belpaese che di fatto ostacola le gallerie straniere e le dissuade dalla partecipazione, la tassazione troppo alta, la mancanza totale di politiche di defiscalizzazione sull’arte, considerata (anche quando donata ai musei) bene di lusso. Eppure, lo spettro che l’anno scorso – il redditometro – sconsigliò vivamente gli acquisti, stavolta ha avuto meno presa. E i collezionisti si sono riaffacciati con nuova energia. La crisi? Ha senz’altro rosicchiato i risparmi della classe media e, crollato il compratore occasionale, una buona fetta di mercato italiano si è inabissata. I prezzi comunque hanno tenuto (al massimo hanno perduto un 10%, ma non i maestri storici, stabili) e hanno continuato la loro ascesa i «poveristi», i minimalisti e gli esponenti dell’arte cinetica (su cui ha puntato, in un elegante stand, la galleria Incontro). Colpivano, in Artefiera, le presenze assidue di Castellani, Bonalumi, Pistoletto, Boetti, Manzoni, Staccioli, Kounellis, con un range di quotazioni che andavano dai ventimila ai settecentomila. I dealers hanno scommesso su moltissimi artisti made in Italy, con qualche sporadica incursione fuori confine, dalle star come Warhol (Knives, 480mila euro) di Cardi a Wesselmann fino a Indiana o la malinconica turca Fatma Bucak di Alberto Peola.

Artefiera, dunque, ha cercato di riassestarsi sulla scena come un «competitor» che, forte delle sue radici storiche, non vuole cedere alla tentazione di affondare nel passato e piuttosto preferisce spingersi in cerca di nuove identità. E nel 2014 lo ha fatto con una mossa piuttosto spericolata, come l’introduzione dell’Ottocento, tendenzialmente relegato nei mercati antiquariali, e con una più «ovvia», la selezione di una ventina di gallerie, piazzate i tutte insieme, dedite soltanto alla fotografia. Un ghetto? Non proprio. A sentire i diretti interessati, l’esperimento ha funzionato. Resta il fatto che in Italia i collezionisti sono restii a comprare opere fotografiche: è un problema culturale, causato da antiche chiavi di lettura dell’arte contemporanea che inibiscono la possibilità di ri-orientare la bussola estetica.

È qui, invece, che si sono potute gustare piacevoli sorprese. Dal The Wall di Abbas Kiarostami a 14mila euro presentato come pezzo forte da Vision Quest di Genova al ritorno di Andres Serrano, Franko B., Gligorov e Zhang Huan grazie a Pack (Milano), fino al Robert Capa da cinquemila euro (Napoli, ottobre 1943) proposto da Photographica Fine Art di Lugano. O, ancora, Alexander Gronsky, classe 1980, Tallinn, che rapisce l’anima con la sua natura innevata, avvolta in una atmosfera atemporale e vintage (nello stand di Forma): si poteva portare a casa con tremila e trecento euro. E se le Officine dell’Immagine, alla loro prima volta in fiera, hanno rischiato il tutto per tutto con la personale dell’iraniana Gohar Dashti, fresca di mostra e di attenzione critica, la galleria Six di Milano ha esposto l’artista marocchino Hicham Benohoud, ma anche parte della produzione erotica anni ’50 di Pierre Molinier: difficile da vendere forse (circa settemila euro a immagine), però scelta raffinatissima che ha documentato come, nel campo della fotografia, le gallerie svolgano ancora un compito di testimonianza e ricerca.

A fare da contraltare al contemporaneissimo, c’era invece l’Ottocento, inserito in alcuni stand un po’ spaesati e spaesanti, tra detrattori e sostenitori. Ma i dealers che hanno aderito all’iniziativa con qualche dubbio, temendo lo scontro con un pubblico alieno, si sono considerati soddisfatti della partecipazione. L’Ottocento italiano – che ha sempre vissuto in un cono d’ombra, dovuto anche ai successi che mietevano i colleghi francesi e inglesi – è in realtà al centro di una rivalutazione internazionale (soprattutto via asta) che riguarda non soltanto la fortuna critica e di mercato di capiscuola come Boldini, Fattori o De Nittis. In fiera, si procede fino a lambire i primissimi anni del Novecento, ritrovando quegli artisti che furono trascurati, rimanendo ai margini delle avanguardie. «Volevamo scalzare una categoria storiografica e contaminare pubblici differenti, è stato un innesto positivo», ha ribadito Spadoni.

Infine, occhio all’Europa dell’est: vedere per credere le proposte di Laura Bulian di Milano (l’uzbeko Akhunov fra tutti) o il bel lavoro di Igor Grubic (Zagabria) con i minatori e gli abitanti siciliani, per la galleria LaVeronica di Modica: le sue opere resteranno in mostra fino a marzo.