Clementino entra sul palco del Teatro Verdi con piglio sicuro, quasi navigato. Ha scelto un monologo, impastato di ironia, dolore e memoria, per presentare il nuovo album Tarantelle, tenendo a precisare fin da subito il perché di un titolo che evoca subito un qualcosa di oscuro e scanzonato al tempo stesso «Con tarantelle vengono indicate le danze e le musiche tradizionali del Sud ma con questo termine, che proviene da taranta, a Napoli s’intendono anche i guai. L’album si chiama così anche per assonanza con i tarantolati, i disperati che ballavano per superare il dolore, che è un po’ quel che ho fatto io» ha dichiarato il rapper napoletano. Di burdell’ Clementino ne ha visto parecchio negli ultimi anni, nonostante gli apparenti periodi sereni post consacrazione, e il disco fotografa magnificamente la sua rinascita umana e artistica, non a caso ripete spesso che il rap deve essere semplicemente verità, e, ascoltando le tracce del disco, questa sorta di catarsi musicale emerge fin subito in canzoni come Un palmo dal cielo, che riassume i sogni annotati quando era in comunità, o La mia follia, su un ragazzo che sta morendo di overdose. «Ho passato due anni d’inferno», racconta. «Sono stato in comunità per due volte per via della cocaina, e in cura da uno psicologo, ma è stata la musica a salvarmi la vita, fin dall’adolescenza. Nei momenti di difficoltà, al posto di perdere tempo in strada a fare cose brutte, mi sono chiuso in studio a far canzoni. Se non ci fossero state la musica, gli amici e la famiglia sarei caduto nel baratro».

«TARANTELLE», che vede la partecipazione di Fabri Fibra, Caparezza e Gemitaiz, però non è solo introspezione, basta ascoltare le potenti e scanzonate Voglio fare un milione e Sempreverde, e sembra forgiare completamente il nuovo corso di Clementino, unendo il rap old school a influenze napoletane come James Senese e Enzo Avitabile, in Marte di notte sembra addirittura di sentire arpeggiare Pino Daniele alla chitarra in un mix che lui stesso definisce “black pulcinella” e che si distacca dalle mode rap e trap del momento «Sono passati più di vent’anni da quando ho iniziato a rappare ma nel mio percorso ci sono state anche cocenti delusioni. Ho fatto la gavetta, non sono diventato famoso in un colpo solo. Ricordo che al primo in-store che ho fatto, a Firenze, c’erano tre persone. Oggi mi sento quasi un superstite anche perché la mia rap-generazione è stato quasi completamente distrutta. Non voglio andare contro i trapper, perché così come ci sono rapper bravi e rapper scarsi, ci sono trapper bravi e trapper scarsi, ma mi spaventa questa generazione interessata solo all’apparenza e ai like. Hip-hop è pace, amore ma soprattutto andare a tempo. Bisogna metterci stile. Meglio uno che fa la rima cuore-amore a tempo, e con stile, che un altro che inneggia alla droga, per di più senza andare a tempo ma ripeto: non ce l’ho con la trap. Il problema sono quelli che arrivano dopo e che pensano prima ad apparire e poi a fare rap. Io prima di mettermi il cappellino al contrario ho dovuto imparare a fare freestyle»