Sovranismo, populismo, neonazionalismo, ma anche identitarismo e fondamentalismo sono parole che descrivono fenomeni dei tempi correnti, interrogandoci su dove stiano andando non solo la politica ma anche e soprattutto le società contemporanee nel loro insieme. Quella italiana, le europee, le società del resto del mondo. Al netto delle tante differenze che intercorrono tra le une e le altre.

Piuttosto che rifugiarci in una sorta di inconsolabile lamento sulla decadenza del nostro presente, ovvero sul solo declino delle democrazie e della Costituzione, occorre invece interrogarci su quale sia lo spirito predominante in comunità nelle quali il passaggio dalla dimensione industriale a quella della globalizzazione, dominata da economie della conoscenza e dell’informazione, invece di contribuire a superare le diseguaglianze ne intensifica la polarizzazione. Tanto più dal momento che stiamo affrontando una nuova fase della storia collettiva, contrassegnata da un pandemia che ci segnerà, nei suoi effetti, per i lunghi tempi a venire.

QUALSIASI RIFLESSIONE sulla rilevanza del cosiddetto «fascismo di ritorno», ovvero della metamorfosi della questione neofascista e del suo proiettarsi su una più ampia platea, quella del nuovo radicalismo di destra, deve quindi partire da questi presupposti. Proseguendo in una discussione che già da tempo si è di nuovo aperta, per identificare non solo quello che del passato si ripresenta ancora come tale, ma anche e soprattutto ciò che, mascherandosi sotto i caratteri del «nuovo» e dell’«inedito», in realtà nasconde una risposta regressiva ai dilemmi delle nostre democrazie. Fino a segnarne la consunzione.

Vale allora la pena di mettere in chiaro, da subito, alcune premesse. Non ha alcun fondamento politico, e ancor meno storico, preconizzare e richiamarsi al «ritorno del fascismo». Ciò almeno per due ordini di motivi: un fenomeno storico non si ripete mai nel medesimo modo; del pari, non si può parlare del ritorno di qualcosa che non se ne è mai andato via del tutto dalle società continentali, neanche con la frattura epocale del 1945. Infatti, in Italia così come in Europa, non ritorna ciò che non si è mai esaurito: piuttosto, si rigenera, manifestandosi in nuove forme, congruenti con le grandi trasformazioni in corso. Come tali, le une e le altre vanno identificate e indagate.

Il legame tra cambiamento delle società e mutamento della politica è al centro di qualsiasi discorso sul potere. Il tornare sul tema del lascito del fascismo ha quindi senso se si ragiona su quest’asse, che lega trasformazione delle relazioni sociali, delle forme di coesione sociale, del senso stesso della vita associata. Poiché, nel qual caso, parliamo di un soggetto di assoluta contemporaneità.

È INFATTI TALE CIÒ che non solo coesiste con i tempi presenti ma che, in qualche modo, concorre a dettarne una parte dell’agenda, a definirne contenuti, a identificare priorità. Mussolini e i suoi hanno lasciato un lungo calco nella società italiana, una fenditura mai cicatrizzata, da dove i loro apologeti di oggi cercano di riconquistare spazio e forza. Anche sotto vesti diverse da quelle di un tempo. Non in omaggio alla continuità di una «idea» ma inserendosi all’interno della lotta per costruire egemonie.

Lo stesso si può dire di quei nazionalismi esasperati che in tanta parte del Continente si riconobbero nel progetto del «Nuovo ordine europeo» di marca nazista. I neofascismi e i neonazismi, quindi, sono fenomeni al contempo mimetici e mitopoietici.

SI ADATTANO come dei camaleonti alle mutate condizioni, difendendo tuttavia un nocciolo profondo, un calco ideologico vissuto e presentato, in quanto «tradizione», come un insieme di valori insindacabili; proseguono inoltre nella rigenerazione di se stessi, della propria immagine, dei contenuti delle loro proposte, seguendo un tracciato che dichiara l’estinzione della politica come impegno collettivo e sintesi del pluralismo – per definizione luogo della corruzione morale – insieme alla necessità di ripristinare qualcosa che si dichiara perduto nei marosi della modernità: identità, etica, gerarchia, ordine e quant’altro. Si tratta di un discorso moderno, per l’appunto.

Non di un rudere del passato, di un vestigio di ciò che fu e che rimane lì, in un orizzonte senza tempo, un anacronismo sospeso nel vuoto delle fantasie nostalgiche.

Non parliamo – quindi – di soggetti metastorici. Così come non stiamo discorrendo esclusivamente di un ipotetico Ur-fascismo, dai tratti culturali perduranti e autosufficienti a prescindere dal suo connotarsi in gruppi e organizzazioni. Piuttosto, proprio perché ci confrontiamo con protagonisti della scena pubblica, variamente connotati, dobbiamo invece interrogarci non solo sulla loro storia di gruppo ma – soprattutto – sul modo in cui si presentano, essi stessi, come «storia», ossia approdo ultimativo e definitivo al quale società in evidente affanno dovrebbero invece tornare a guardare con fiducia. Tanto più dinanzi alla crisi irreversibile delle democrazie sociali, liberali e dei loro assetti costituzionali. In quanto, e avremo ancora modo di tornare anche su questo passaggio strategico, esiste una stretta correlazione tra declino di queste e reviviscenza dei radicalismi reazionari. Poste queste premesse, semmai ha senso parlare di rigenerazione di motivi e atteggiamenti di fondo che rimandano a un sedimento ideologico e subculturale con una sua specifica matrice fascista. Che si perpetua nel tempo.

CHI SI RICONOSCE in essi, o se ne sente comunque attratto, non lo fa malgrado il passato ma proprio in ragione di esso. Da ciò bisogna quindi partire. Ossia dal suo essere un deposito non di cianfrusaglie bensì di suggestioni molto potenti, dalla forte connotazione sociale ancorché rigorosamente anti-socialista, dalla potente propensione conformistica nonché avversa a ogni liberalismo. Suggestioni che di volta in volta possono dare argomenti anche a forze politiche che paiono avere o poco o nulla da condividere con quella parte della storia in cui il fascismo storico occupò per intero la scena. La soglia più pericolosa, superata la quale il rischio collettivo si fa stringente, è quella dell’assimilazione e dell’utilizzo di tali motivi nell’azione di governo o comunque di gruppi, partiti e organizzazioni che aspirano a influenzare le istituzioni e le loro scelte di lungo periodo. Poiché è in queste circostanze che avviene una vera e propria traslazione, da temi sparsi, ancora minoritari, in una ideologia di senso comune.

Le vicende in corso in alcuni Paesi dell’Europa orientale testimoniano, per più di un aspetto, tale deriva. Soprattutto, ci restituiscono il drammatico senso del declino democratico, quando alle istituzioni della rappresentanza, ai soggetti collettivi dell’intermediazione, si sostituiscono gli indirizzi autocratici e monoculturali.

PERALTRO, I CONFLITTI SOCIALI del presente hanno una natura e delle dinamiche molto diverse da quelle di cent’anni fa. Oggi, la grande frattura che attraversa le nostre società è tra quella parte della popolazione che gode delle garanzie offerte dal lavoro regolare, a tempo indeterminato, e quindi da un sistema di tutele collettive sancito da norme attivate e patrocinate da organismi di rappresentanza, e chi, invece, ne è effettivamente escluso (o se ne considera tale).

Non è di certo l’unica linea di divisione ma è senz’altro quella più insidiosa. L’azione del radicalismo di destra è volta a cercare di raccogliere l’adesione di coloro che si sentono esclusi dal circuito dei diritti, ancora una volta – come già era in parte accaduto dopo la fine della Prima guerra mondiale – assumendo le false vesti di rappresentante del loro disagio. In questo senso, sovranismo, populismo, identitarismo e altri fenomeni politici, tra di loro anche molto diversi, non sempre riconducibili a un’unica radice, condividono tuttavia una comune matrice eversiva, che cerca di avvantaggiarsi della situazione corrente.

La natura eversiva rimanda al loro costituire la forma odierna del rifiuto della democrazia partecipativa. Non è eversione solo ciò che si adopera, con il ricorso alla forza fisica, al ribaltamento violento degli ordinamenti costituiti. Essa si manifesta in un più generale scetticismo diffuso, cui le formazioni politiche radicali si incaricano di dare forma e sostanza, indirizzandole verso sbocchi anticostituzionali.

QUESTA MATRICE è declinata essenzialmente in pochi aspetti, come tali però fondamentali in quanto imprescindibili: la teorizzazione dell’idea di nazione come di un’identità etnica rigida e immodificabile; l’accusa, rivolta a chiunque non sia riconosciuto come parte di questa «identità» comune, di costituire una minaccia per il fatto stesso di esistere; la visione dei rapporti di potere come risultato non delle diseguaglianze sociali ed economiche, contro le quali impegnarsi, bensì del dispiegarsi di un complotto da parte di oscure élites che, dietro le quinte, si adopererebbero contro il «popolo»; uno stile di comunicazione demagogico che, fingendo di volere soddisfare gli interessi collettivi, in realtà tutela solo gruppi di interesse corporati; l’avversione per ogni forma di pluralismo – non solo politico ma anche sociale, culturale, civile, sessuale e di genere – e la diffidenza, che si fa rifiuto e poi ripudio, nei confronti della democrazia rappresentativa, alla quale viene contrapposta una falsa «democrazia diretta», quella intercorrente tra «capo» e «popolo». Più in generale, la sintesi di tutti questi motivi si trova nella rivendicazione della legittimità dell’essere disumani, ossia ferocemente intolleranti, contro coloro che, di volta in volta, sono additati come un pericolo per la sopravvivenza del proprio gruppo.