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La riforma in aula senza accordo

La riforma in aula senza accordoBoschi, ministra delle riforme, con Finocchiaro, presidente della Commissione – Sintesi visiva

Senato Calderoli protagonista: frena la corsa del governo, poi consente di chiudere annunciando novità. La prima commissione chiude con un ultimo ritardo. Il compromesso sulla composizione della nuova assemblea dovrà essere ancora cambiato

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 luglio 2014

«Siamo certi che l’aula saprà confermare in tempi rapidi l’impianto del nuovo senato uscito dalla commissione». A sera la nota ufficiale del Pd vorrebbe festeggiare ma tradisce qualche timore. Il testo della riforma costituzionale di governo ha finalmente passato la prima boa, con un ultimo ritardo, ma già vede gli scogli del dibattito in aula. Tanto che la ministra Boschi, al timone nella bufera delle correzioni, prevede nuove modifiche. E uno dei due relatori, il leghista Calderoli, annuncia che già sta scrivendo il prossimo emendamento su quel punto che dal principio è rimasto non risolto nel «patto del Nazareno» allargato alla Lega: le modalità di composizione del nuovo senato.

Accantonata per un mese, nei piani del governo la questione del governo e della relatrice Finocchiaro avrebbe dovuto risolversi in poche ore ieri mattina, per consentire l’approdo pomeridiano in aula del testo. Invece la Lega si è accorta che l’ultima intesa tra Pd e Forza Italia sul modo in cui i consiglieri regionali sceglieranno se stessi e i sindaci la penalizzava troppo. Alla protesta si è aggiunto il partito di Alfano, sempre alla ricerca di qualche compromesso da scambiare sul tavolo parallelo della legge elettorale. E così nessuna passeggiata trionfale. All’ora del pranzo i relatori, il governo e i centristi invitati al desco si sono messi a correggere l’emendamento 2.1000 che solo la sera prima Finocchiaro aveva depositato già in seconda versione. Dalla terza versione è sparito il riferimento a una futura legge elettorale (per consiglieri regionali) costituzionale, ma resta quello a una prossima legge bicamerale che cambierà le carte sei mesi dopo l’approvazione della riforma. Viene ribadito che i consiglieri voteranno con metodo proporzionale – e non si schiodano le liste bloccate – e leggermente ritoccato il riferimento alla «composizione» del consiglio regionale che, in teoria, doveva essere la pietra dello scandalo perché attribuiva troppo potere ai capigruppo. In realtà a Calderoli non va bene la norma transitoria, quella che è nella legge costituzionale ma che non sarà scritta in Costituzione, perché il meccanismo dettagliatamente previsto favorisce molto il Pd e un po’ Forza Italia. Tentando una simulazione riferita al Lazio, su sei senatori prevedibili per la regione (ma il numero muta con il mutare della popolazione, rendendo instabile anche il plenum del nuovo senato) con il nuovo sistema tre potrebbero andare al Pd e solo uno a testa a Forza Italia, M5S e Ncd.

Ma nel tardo pomeriggio di ieri Calderoli ha dato il suo via libera, consentendo al governo di chiudere in commissione e dare l’appuntamento all’aula lunedì prossimo. Il senatore leghista ha evitato di insistere, ma il suo è un preavviso di battaglia che riaprirà presto i giochi proprio sulla questione più delicata. È fin troppo chiaro che alla Lega e ad Alfano, ma in fondo anche a Berlusconi per quanto con preoccupazioni opposte, interessa tenere aperta questa partita mentre si gioca l’altra sulla legge elettorale. Ragione per cui è prevedibile una navigazione più lunga del previsto, non le due settimane che ha segnato sul calendario la ministra Boschi, che infatti è già partita con le raccomandazioni a chiudere «per le vacanze». In aula le possibilità di fare ostruzionismo sono tante ed è difficile che il governo possa stroncarle tutte mentre si discute di una legge costituzionale, non subito almeno. Movimento 5 Stelle e Sel sono al lavoro per studiare tecniche convergenti, alle quali difficilmente si uniranno i «dissidenti» dei due gruppi maggiori. Molti tra quelli di Forza Italia saranno presto richiamati all’ordine da Berlusconi, mentre quelli del Pd faranno attenzione a non essere indicati come disfattisti o frenatori. Quanto alla minoranza «dialogante» dei democratici – i bersaniani – il compromesso raggiunto sull’elezione del presidente della Repubblica la dice lunga. È un risultato di nessun peso perché ha solo spostato in avanti la possibilità per il primo partito di eleggere da solo il capo dello stato, una condizione che oltretutto peserà nelle trattative sin dal primo scrutinio. Ma ai «dialoganti» tanto è bastato per archiviare soddisfatti la battaglia.

Per fermare in aula la riforma costituzionale servirà invece sfidare apertamente il presidente del Consiglio, che nel frattempo si fa «una risata delle accuse di autoritarismo». Continuando a chiamare «gufi» quei senatori che avanzano dubbi sul metodo e sul merito della sua riforma. Ed è notevole che nessun epiteto del genere sia piovuto da palazzo Chigi verso i leghisti, che pure hanno bloccato la riforma tutta la giornata di ieri. I senatori in camicia verde sono 15, esattamente quanti i «dissidenti» del Pd. Ma Calderoli è un protagonista essenziale di questa «rivoluzione» renziana. Anche di questa.

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