Ho letto l’intervento di Vittorio Agnoletto, pubblicato dal manifesto, in risposta alle proposte avanzate da Beppe Sala, e dal Partito Democratico lombardo, sulla necessità di cambiare la politica sanitaria e l’organizzazione regionale stessa in territori che escono, al di là della minimizzazione continua di Fontana e soci, massacrati da questo terribile 2020. Un 2020 che ha fatto bruciare ferite, è bene dirlo limpidamente, già ben presenti.

In Lombardia (e probabilmente pure altrove) c’è tantissimo da ricostruire, non solo sul tema essenziale del sostegno all’economia, al lavoro, al sistema delle imprese (soprattutto a quelle piccole ed individuali) ma proprio sulla politica sociale e sanitaria che si intende mettere in campo.
Non siamo e non saremo, allora, alla semplice necessità di piccoli aggiustamenti e di lievi miglioramenti (magari da suggerire sussurrando) dopo la “tempesta”. Siamo proprio all’esigenza di cambiare tanto, tantissimo.

Su questo terreno, che è poi una premessa essenziale per capire quali scelte compiere, mi pare convergano voci tra loro molto diverse. Non penso solo a ciò che proviene dalla politica che, va sottolineato pensando al campo del centrosinistra, finalmente supera qualsiasi complesso di inferiorità “lombarda” e dice, attraverso il sindaco di Milano, i consiglieri regionali e tanti di noi, che le trasformazioni dovranno essere poderose.

Penso anche, e forse soprattutto, a quel che emerge dal mondo delle professioni, dall’associazionismo del mondo medico, dalla comunità degli operatori sociosanitari, da quella parte di terzo settore che decide di prendere la parola e così via. Del resto, in questi giorni sono in molti, da Garattini a Massimo Galli, ad esprimere una cosa perfino banale: un senso dell’urgenza del cambiamento che trae la propria legittimazione dalla grottesca catena di errori a cui si assiste.
Un senso dell’urgenza che deve condizionare qualsiasi fase nuova si intenda proporre. Tra le cinque idee di Sala e le sette di Agnoletto (di cui ho condiviso nei mesi scorsi la richiesta del Commissariamento della Sanità) evidenzio tre punti che mi sembrano imprescindibili.

Primo: si deve superare qualsiasi logica che fa della salute una merce. Potenziando in modo inequivocabile il sistema “pubblico” e dialogando con il “privato” da una posizione di forza. Privato che ovviamente c’è e ci sarà ma a cui ricorrere riscrivendo totalmente le regole d’ingaggio e costringendolo a non posizionarsi, se interno all’offerta sanitaria complessiva, “solo” nell’ambito delle prestazioni maggiormente remunerative.

Secondo: Senza alcuna ambiguità va superata l’offerta “classista” e discriminatoria ancora più evidente in questi mesi. Perché se hai i soldi e le relazioni ti procuri vaccini antinfluenzali, prestazioni, tamponi. Altrimenti aspetti, disorientato da una gestione peraltro impazzita. E questo riguarda i mesi dell’emergenza ma in realtà si riflette nell’organizzazione complessiva della sanità, laddove per saltare i tempi d’attesa legati a prestazioni anche molto semplici, si può ricorrere proprio al privato, che non ha in alcun modo alleggerito ” il pubblico dalla domanda di chi si può permettere di pagare” finendo per creare un solco inaccettabile a seconda delle condizioni materiali di vita.

Terzo: il territorio deve essere il luogo della ricostruzione dell’offerta e della cura. E ciò vuole dire cose molto diverse tra loro. Dal protagonismo essenziale degli enti locali, richiamato giustamente da Sala, alla realizzazione di case della Salute e di case di Comunità per dirla con Don Colmegna, dalla ricostruzione di consultori sulla salute della donna all’offerta di nuovi servizi sulla neuropsichiatria infantile, dalla riorganizzazione ad ogni livello dell’assistenza domiciliare e della politica socioassistenziale (occasione questa per il massimo di protagonismo del terzo settore, per un esempio concreto si veda l’esperienza di wemi.milano.it ) alla ridefinizione dell’offerta ospedaliera che (non deve essere un tabù) può assolutamente essere ripensata al fine di evitare moltiplicazioni infinite di siti e, contestualmente, pesanti lacune.

La Lombardia, nonostante le tante esperienze di governo delle sue città, è da sempre il laboratorio politico italiano della destra peggiore. E l’alternativa è spesso apparsa come assolutamente incerta. Sono questi, e non altri, i mesi durante i quali, ripartendo dai principi fondamentali e dalla “vita vera” pensare ad un modello diverso e veramente competitivo.

*Parlamentare europeo del Pd