«Nel 2014 un’amica che considero una sorella è stata stuprata mentre faceva jogging presso la Vista Chinesa», scrive così Tatiana Salem Levy nella nota finale di Oscura foresta (La Nuova Frontiera, traduzione di Annabella Campanozzi, pp. 128, euro 16,50 ). La «Vista Chinesa» – che è il titolo originale del libro – si trova a Rio de Janeiro, all’interno di un parco cittadino simile a una foresta tropicale: un luogo potenzialmente bellissimo, ma infernale per la donna che viene prima minacciata con un’arma, poi picchiata e violentata a più riprese. Noi lettori, tuttavia, scopriamo i dettagli a poco a poco attraverso continui andirivieni temporali, che sembrano seguire un percorso emotivo più che cronologico. I dettagli sono importantissimi in questo racconto e si infittiscono a mano a mano che la narrazione procede, confondendosi nella memoria della donna.

IMPOSSIBILE DESCRIVERE lo sconosciuto che l’ha violentata nel suo insieme, più facile ricordarne «la consistenza della lingua più ruvida di quella dei suoi guanti», la pelle ispida, la barba incolta, l’alito maleodorante. Perché come scrive Tatiana Salem Levy dando voce all’amica, «la cura passa dai dettagli. Sono i dettagli che mi libereranno da tutto». Anni dopo lo stupro Levy decide di ricontattare l’amica e di lavorare con lei su questa storia e così, per giorni e giorni, le due donne parlano, lavorano insieme al racconto, lo rileggono: la forma che acquista il libro è di per sé stessa espressione del concetto di sorellanza. Oltre a essere un omaggio all’amicizia fra donne, Oscura foresta è anche la messa in pratica di uno degli ideali chiave del femminismo, «il personale è politico»: il resoconto intimo e crudo dello stupro e del percorso per superarlo diventano una riflessione sul trauma, sulla giustizia e sulla vendetta. Di più: la violenza subita dalla donna, che tra l’altro è un’architetta, si riflette nella rovina della città, Rio de Janeiro, nella società divisa da disparità sociali, nell’inadeguatezza della polizia e nel vuoto di progetti che seguono l’euforia dei preparativi per le Olimpiadi. «Avevo bisogno di far pace, non solo con il mio corpo, ma anche con la mia città».

COLPISCE IN QUESTO LIBRO la quasi totale assenza degli uomini che sono relegati ai margini del racconto, come il compagno della donna, che non smette mai di starle vicino e non dice mai una parola di troppo o il padre e il fratello che compaiono soltanto all’inizio e fugacemente. Sarà invece un’amica, Diana – il nome non può essere casuale – a curare non solo metaforicamente le sue ferite, ad accompagnarla alla polizia e ad aiutarla a prendere la decisione più difficile, quella di interrompere la ricerca del colpevole.

Non è una lettura lieve quella di Oscura foresta, quinto libro di una delle autrici brasiliane conosciute all’estero e già tradotta in Italia dalla casa editrice Cavallo di ferro, ma nemmeno respingente: l’adesione alla storia dell’amica da parte dell’autrice è tale da scongiurare ogni forma di morbosità. Al contrario, la riconquista del proprio corpo dopo la violenza è un processo lento che passa attraverso inevitabili sofferenze, senso di vergogna e desiderio di oblio, ma che poi conduce alla rinascita: il ritorno del piacere fisico, che verrà riconquistato grazie a un viaggio molto speciale, e poi l’arrivo della gravidanza e la nascita di due gemelli, un maschio e una femmina. Saranno loro i destinatari di questa storia in forma di lettera che Joana Jabace, questo il vero nome della donna, deciderà coraggiosamente di raccontare ai suoi figli.