Sopravvivere a se stessi, alla propria fama, a un nome che solo a pronunciarlo evoca la leggenda. I Pearl Jam lo fanno con leggerezza e vedere questi cinque signori quasi cinquantenni che si agitano sul palco davanti alle 60mila persone cotte dal caldo di San Siro è una botta di freschezza nella post-malinconia di un’Italia renziana che ormai può solo sorridere dei propri guai e cambiarsi d’abito ogni giorno per fingere che ci sia davvero qualcosa di nuovo.

A metà pomeriggio, Eddie Vedder si presenta con la maglia azzurra di Antonio Cassano, augura il meglio alla nazionale di calcio (che poco dopo si sarebbe fatta sconfiggere dalla Costa Rica), suona il classicone Porch e poi fila via a farsi un selfie con Marco Materazzi.
Il palco spoglio sul quale suonano i Pearl Jam è l’esaltazione di un’estetica dura a morire: davanti al gruppo c’è una folla di fan in delirio, ma loro si comportano come se stessero suonando in qualche locale di Seattle, davanti ai soliti amici, nel furore sudato dei 18 anni. Sono una garanzia, i Pearl Jam: se, com’è noto, il grunge è morto suicida con Kurt Cobain, Vedder e compagni continuano per la loro strada, quella di un rock che è sia intimo e maturo sia impulsivo e spontaneo.E non fosse per i comitati «antirumore» che si oppongono a ogni genere di concerto nello stadio di Milan e Inter, ci sarebbe da scommettere che i Pearl Jam avrebbero alzato il volume degli amplificatori di qualche tacca.

Così, San Siro urla e loro sorridono, nella ripetizione eterna di un rito che va avanti da decenni. Una messa cantata, in cui tutti aspettano che cominci questo o quel pezzo, con le inevitabili delusioni dettate dal fatto che Vedder di classici ne ha scritti anche troppi.

E qui sta tutta la differenza con il resto del ‘Seattle sound’: i Pearl Jam non erano «solo» grunge, la loro vocazione non era quella di chi si brucia in fretta e lascia un solco indelebile nella storia del rock, ma quella di chi preferisce lavorare con il tempo, consapevole del fatto che una bella canzone è una bella canzone sia nel 1990 sia nel 2014. I loro idoli venivano da lontano: gli Who, i Doors, i Ramones, Neil Young. Per questo furono parecchio criticati, agli esordi, con Cobain che arrivò a criticare Ten perché c’erano troppi assoli di chitarra. Spesso la critica si lamenta di questo loro sostanziale immobilismo, del fatto che dagli esordi a Lightning Bolt (l’ultimo disco, del 2013), le cose siano cambiate pochissimo, musicalmente parlando. Ma è un discorso ozioso, quasi masturbazione mentale: l’attuale panorama offre una vasta gamma di ricercatori di novità a tutti i costi, come si il verdoniano «famolo strano» possa essere garanzia di capolavoro.

I Pearl Jam hanno cominciato un discorso quando l’America bruciava la rabbia per l’epopea di Reagan e Bush padre e lo continuano anche adesso, che con Obama pare essersi risvegliato l’orgoglio progressista. Niente azioni eclatanti – Vedder, d’altra parte, non è Johnny Rotten –, niente proclami solenni e discorsi all’umanità: i Pearl Jam non predicano, i Pearl Jam ragionano con la chitarra. E parlano a tutti, sempre, senza distinzioni di sorta. Basti pensare ai loro fan, quelli del Ten Club, ragazzi che provengono da tutto il mondo, forse un po’ invecchiati ma ancora fedelissimi alla causa, che si scambiano pareri e opinioni sui forum, e guardano con sospetto chi non è dei loro.

Nell’epoca della comunicazione forzata e dei social network che hanno sostituito in toto la vita sociale di un paio di generazione, è bello sapere che c’è ancora gente che si stringe intorno a qualcosa di concreto. Concreto come i Pearl Jam.