Il rapido sviluppo dei vaccini anti-Covid-19 sarà ricordato come una delle maggiori imprese scientifiche degli ultimi decenni. Non si può dire la stessa cosa per la ricerca di una cura contro il Covid-19. Dopo un anno di pandemia, infatti, di una terapia vera e propria non si può ancora parlare. Le sperimentazioni non sono mancate, ma molto spesso hanno dato esito negativo.
A fare il punto sulle terapie a disposizione contro il Covid-19 arriva ora l’accademia dei Lincei che, sotto la presidenza del fisico Giorgio Parisi, ha recuperato quel ruolo di “Comitato tecnico scientifico” in servizio permanente che lo statuto le assegna. Proprio allo scadere del 2020, l’Accademia ha pubblicato il documento Farmaci per la prevenzione e il trattamento di Covid-19 e delle sue complicanze: Report di Autunno 2020. Sin dal titolo, il documento testimonia di una situazione in continuo aggiornamento.

Il rapporto passa in rassegna le varie strategie tentate per guarire i pazienti dal Covid-19 durante il 2020. La ricerca di una cura ha intrecciato scienza e politica, a cominciare dall’idrossiclorochina, il farmaco anti-infiammatorio utilizzato nella cura delle malattie reumatiche e sperimentato contro il Covid-19 da un immunologo tanto eminente quanto discusso come il francese Didier Raoult. Frenando l’infiammazione, sostiene Raoult, l’idrossiclorochina previene la cosiddetta “tempesta di citochine”, un disordine della risposta immunitaria che secondo i ricercatori provoca i sintomi più gravi del Covid-19.

Il farmaco ha ricevuto una precoce autorizzazione di emergenza da parte della statunitense Food And Drug Administration «basata in gran parte – secondo i Lincei – su considerazioni relative al meccanismo d’azione dei farmaci e su pressioni politiche». In effetti, il presidente Usa uscente Donald Trump ne ha raccomandato fortemente l’uso in molte occasioni pubbliche ammettendo di assumerla regolarmente, abitudine che non gli ha impedito di ammalarsi. L’autorizzazione è stata poi revocata dopo varie sperimentazioni dall’esito negativo come il trial “Solidarity”, realizzato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) su oltre 11 mila pazienti in 30 paesi diversi.

Simile il destino del remdesivir, un farmaco antivirale mirato a fermare l’infezione e quindi più adatto per il trattamento precoce. I risultati preliminari di una sperimentazione statunitense hanno mostrato un promettente ma parziale accorciamento dei tempi di guarigione. La Fda ha dunque autorizzato l’uso di emergenza del remdesivir, inducendo la Casa Bianca a accaparrarne gran parte della produzione. È toccato di nuovo all’Oms mostrare, sulla base di numeri più rappresentativi, che nemmeno il remdesivir diminuisce la mortalità. Risultato: oggi negli Usa è raccomandato, mentre in Italia l’Aifa ne consiglia l’utilizzo «esclusivamente in casi selezionati, dopo un’accurata valutazione del rapporto benefici/rischi», in attesa di studi ulteriori.

Solo il desametasone, un derivato del cortisone, ha superato il test dell’Oms, con effetti comunque limitati: la mortalità diminuisce di un terzo nei pazienti intubati e di un quinto negli altri.

Tra le altre possibili cure, sono attesi risultati più solidi per gli anticorpi monoclonali (già autorizzati negli Usa) prima di un’eventuale approvazione europea.

L’apparente fallimento dei farmaci anti-Covid deve ricordarci l’incertezza che accompagna ogni ricerca scientifica e la necessità di finanziarla senza dare per scontate ricadute immediate.

Lo sviluppo di un farmaco richiede anni di lavoro di ricerca e adeguati finanziamenti. Gli investimenti nella ricerca di terapie sono stati per ora inferiori rispetto a quelli dedicati ai vaccini. I fondi messi a disposizione dall’operazione “Warp Speed” del governo Usa per rispondere alla pandemia, circa 13 miliardi di dollari, sono stati destinati al 94% all’industria dei vaccini e solo per il 6% alla ricerca di farmaci (soprattutto anticorpi monoclonali). Anche all’Oms i fondi raccolti a sostegno dello sviluppo e della distribuzione dei vaccini sono cinque volte maggiori di quelli destinati ai farmaci. L’allarme riguarda soprattutto i paesi in via di sviluppo, che rischiano di rimanere senza gli uni né gli altri per tutto il 2021.