Il suo nome è legato all’idea che la solidarietà sociale sia lo strumento indispensabile per contrastare una politica sociale e economica funzionale alla concentrazione della ricchezza. Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006 per le sue tesi contro le diseguaglianze sociali dell’economia mondiale e per le sue proposte di microcredito a favore dei poveri, continua a sostenere la tesi che a reciprocità tra poveri possa favorire una soluzione alle diseguaglianze sociali a livello globale.

Le tesi di Yunus sono note in tutto i mondo. Hanno il pregio della semplicità difficile a farsi. Per l’economista bengalese, le disuguaglianze immonde che contraddistinguono le società nel sud del pianeta sono superabili se ci siano istituzioni o singoli che aiutino uomini e donne che sviluppano attività economiche autonome da quelle dominanti su grandi scala.

Yunus ha proposto negli anni iniziative di microcredito per favorire le attività di autoproduzione di reddito su piccola scala. La sua proposta ha avuto il diffuso consenso di uomini e donne nel Sud del mondo. In fondo, la povertà poteva essere affrontata in maniera semplice. Bastava un credito ai poveri elargito senza un tasso di interesse usuraio. Per questa proposta, semplice nella sua operatività, lo storico dell’economia operante nel Bangladesh ha avuto il premio Nobel per la pace nel 2006, diventando così il simbolo pacifica fuoriuscita dal capitalismo.

Muhammad Yunus è stato però aspramente criticato sia dai movimenti sociali critici verso l’economia capitalista che dagli economisti mainstream. Se gli attivisti puntano l’indice verso le ingenuità della sua proposta, i neoliberisti hanno sempre visto nel microcredito di Yunus il classico dispositivo economico che nulla avrebbe cambiato nei rapporti di forza a livello locale e globale.

Dal 2008 molta acqua è passata sotto i ponti. Yunus ha rafforzato la sua organizzazione non governativa, facendola diventare nel tempo una delle esperienze pilota di una gestione delle povertà a livello planetario. La sua banca, la Grameen Bank, è diventata sinonimo negli anni di una finanza «etica» funzionale alla lotta globale contro la povertà. In molti, uomini e donne, hanno adottato il meccanismo proposto da Yunus, riuscendo a intraprendere attività imprenditoriale su piccola scala. Ma altrettanti uomini e donne hanno visto nella Grameen Bank un equivalente della finanza rapace capitalista su piccola scala.

Muhammad Yunus ha continuato a camminare per la sua strada. Ha mandato alle stampe due libri dove illustrava il suo punto di vista (l banchiere dei poveri e Un mondo senza povertà, entrambi pubblicati da Feltrinelli). Le proposte dell’economista cingalese hanno incontrato appunto consensi e aspri dissensi.

L’ultimo libro di Muhammad Yunus (Un mondo a tre zeri, Feltrinelli) prova a individuare vie d’uscita virali dal capitalismo. Mai è infatti prospettato un conflitto radicale con lo status quo. La strada prospettata è una impolitica testimonianza di alterità o una diffusione virale di esperienze cooperative non mercantili.

L’intervista con Muhammad Yunus è avvenuta durante il tour italiano per presentare il suo libro da poco pubblicato da Feltrinelli. Ieri è stato ospite della Fondazione Intesa San Paolo a Torino nella conferenza «Immaginare il futuro. Conversazioni sui grandi cambiamenti e le sfide del domani». Oggi terrà un seminario alla Fondazione Feltrinelli di Milano.

Nel suo libro si dilunga sul fallimento del capitalismo. Cosa intende con fallimento?

I teorici del capitalismo hanno sempre prospettato una società che garantiva il benessere generalizzato. Non è stato così. La povertà diffusa, la crescita delle disuguaglianze sociali, la concentrazione della ricchezza mettono in evidenza che l’idea di una società del benessere generalizzato era una illusione. Vediamo infatti manifestarsi povertà e disuguaglianze radicali. Viviamo cioè in un mondo che possiamo rappresentare come una bomba ad orologeria0 che può deflagrare da un momento all’altro.

Quello che serve è una progettazione radicale di un altro modo di immaginare e sviluppare le relazioni sociali, economiche, politiche. Il problema cioè è riprogettare il capitalismo. Uomini e donne debbono quindi ripensare il modo di produzione e redistribuzione della ricchezza.

Quando dico che siamo in presenza di una bomba ad orologeria che può esplodere da un momento all’altro non voglio indurre paura, ma registrare lo stato dell’arte delle relazioni sociali nel pianeta. È quindi il capitalismo che dobbiamo ripensare. E se questo comporta un suo superamento non sono certo io che mi tiro indietro.

Più volte lei ha sostenuto la necessità della crescita di una economia sociale altra dal libero mercato. Eppure l’economia civile, solidale fa i conti con le fragilità di una economia della sussistenza. Lei ha proposto il microcredito individuale, una finanza etica per sfuggire alla povertà. È una soluzione che richiama l’immagine di chi vuol svuotare l’Oceano con un secchiello….

Rispondo così: cosa siamo disposti a sacrificare per sconfiggere la povertà a livello globale? Non sono un moralista. Mi pongo solo il problema di quanto siamo disposti a rinunciare ai nostri piccoli o grandi privilegi per combattere la povertà, la disoccupazione dilagante….. Secondo me, le scelte che facciamo, le scelte che compiamo hanno un senso politico e etico se sono finalizzate a ripensare, riprogettare il modo di produzione della ricchezza e della su redistribuzione.

Nel suo libro si dilunga sulla disoccupazione di massa. Le sue soluzioni alludono a un mondo dove tutti siamo piccoli imprenditori di noi stessi. Non sembra una fuoriuscita dal capitalismo quella che lei prospetta….

Tutti noi, uomini e donne, siamo imprenditori di noi stessi. Abbiamo talento, creatività negati dal rapporto di produzione dominante. Dobbiamo liberarci dai vincoli che ci relegano a una dimensione subalterna, dipendente da chi esercita il potere.

Dobbiamo quindi guadagnare la libertà diventando imprenditori del nostro talento e creatività. Il capitalismo, nelle forme dominanti, impedisce sia l’espressione del talento e della creatività individuale. Lei allude al fatto che la mia proposta di microcredito e di autoimprenditorialità diffusa sia subalterna al capitalismo. Può essere così. Ma è un rischio che va corso.

La sua proposta corre il rischio di legittimare una realtà segnata da una diffusa economia della sussistenza e una concentrazione della ricchezza che non incontra opposizione…

È il capitalismo contemporaneo produce una diffusa economia della sussistenza. Penso che la ricchezza sia da condividere, che il modello verticale dominante – pochi ricchi dominanti e tanti poveri dominati – vada ripensato, riprogettato. Mi sembra che sia importante ripensare modelli di redistribuzione della ricchezza.

Io propongo delle cose, ma se ci sono altri che propongono altre soluzioni sono bene accette. Il microcredito, le ong che fanno loro la proposta di una redistribuzione e condivisione della ricchezza possono pure apparire ingenue o inadeguate al conflitto in corso tra concentrazione della ricchezza e sua redistribuzione, ma questa è comunque la strada maestra da percorrere.

In molti scrivono di un conflitto globale tra élite e popolo. È davvero il populismo il lessico politico di una critica radicale delle élite globali?

Donald Trump, la Brexit e molti altri leader politici populisti sono un sintomo, una risposta parziale e subalterna al modello capitalista. Sono cioè risposte potremmo dire reattive a problemi globali e locali. più che risolvere i problemi li radicalizzano e li «naturalizzano». Non sono la solo soluzione, ma parte del problema. Creano muri, alimentano paure, ostilità verso il diverso, verso l’altro.
Il populismo più che contrastare rafforza il capitalismo contemporaneo. Lo ripeto: la soluzione è la riappropriazione della ricchezza, la sua redistribuzione e condivisione.