L’esordio per Lamberto Sanfelice, quarantenne romano, è stato di quelli fortunati; il Sundance di Redford, poi la Berlinale, il suo Cloro (scritto dallo stesso regista insieme a Elisa Amoruso) ha fatto il giro del mondo. Un po’ romanzo di formazione, un po’fiaba nera di cui prende gli archetipi che fanno paura a tutti i ragazzini come la perdita dei genitori, Cloro sembra ispirarsi alla lezione dei primi Dardenne, macchina da presa appiccicata ai corpi, sempre un po’ sporchi, sgualciti, specie quello della giovane protagonista, Jennifer (Sara Serraiocco vista come cieca in Salvo) anche se dei fratelli belgi il regista non ha l’implacabilità spiazzante. E un po’ a quei film indie americani immersi in un paesaggio che sembra narrare anch’esso una lotta come quella vissuta dai personaggi.

Perché di lotta si tratta per Jennifer (Serraiocco), di una competizione che dalla piscina in cui si allena con l’amica del cuore si sposta alla vita. La sua passione è il nuoto sincronizzato, è pure brava, a Ostia dove vive esercita il corpo alla perfezione. Poi succede che la mamma muore, che il padre perde tutto, lavoro, casa mangiata dalle banche e loro devono trasferirsi in montagna, sulla Maiella, nel paesino da cui arriva il padre che piomba in depressione e cerca di ammazzarsi. Così il fratello lo chiude in un convento di frati per «anime in pena». La povera Jennifer a quel punto che già aveva lasciato gli studi per fare le pulizie nell’albergo del posto, è costretta a occuparsi del fratello minore, un ragazzino spaesato, e a rinunciare all’amata piscina.

Se uscire dal cloro per gettarsi in mare aperto, significa il passaggio tra infanzia e età adulta, l’immagine di quest’ultima che governa la testa del regista è a dir poco inquietante. La povera Jennifer è infatti condannata a una vita da serva, col sesso scoperto grazie allo slavo migrante – al solito -assai più vecchio e sfigato di loro, ch però la copre col direttore dell’albergo nei suoi allenamenti notturni nella piscina dell’hotel.

Di fondo però il cuore del film è questa sua ossessione, un nervo scoperto che provoca odio verso il mondo, la ribellione dell’adolescenza verso tutto e tutti che qui mescola anche la rabbia per avere perso qualcosa di importante. Forse la propria innocenza? Si diceva dei Dardenne. Se pensiamo a un personaggio come Rosetta, non vi era nessuna giustificazione, nessuna struttura esterna che ne motivasse il flusso della vita. Però era forte, potente, e questa energia è quello che manca nel film di Sanfelice, i cui personaggi finiscono con apparire come delle figurine che seguono un itinerario predeterminato. Tutto deve rispondere a qualcosa, tutto è già scritto e gli scarti del corpo, quello della giovane protagonista, che cerca imbizzarrito le risposte al suo dolore, suonano sempre vuoti.

C’è poco corpo in Cloro, nonostante le intenzioni dichiarate da una narratività che invece, appunto, si affida soprattutto alla scrittura. Chiudendo i corpi nelle gabbie del prevedibile, nei guizzi troppo ordinati di figurazioni esistenziali la cui temperatura è fatta da immagini quasi da repertorio – corse a perdifiato, specchi, la prima volta in piscina ecc. – senza libertà e soprattutto senza un guizzo viscerale.