L’essenza dell’idea del Palazzo Enciclopedico messo in atto da Massimiliano Gioni sembra pervadere e stordire i Padiglioni nazionali. La dualità dichiarata della Biennale 2013, esposizione del curatore da un lato e padiglioni dall’altro, pare così affrancarsi nell’esercizio analitico indirizzato dal Libro Rosso di Jung: la «wunderkammer» sognata per secoli, talvolta utopisticamente realizzata anche nel fallimento del dettato storico delle avanguardie primo-novecentesche, da artisti e scienziati trova così piena consapevolezza nelle odierne tecnologie multimediali. Presa questa via le reciproche differenze, peraltro marginali nella globalità dell’arte contemporanea e sulle quali poggiano teorie oppositive e resistenti di ogni singolo artista e curatore invitato, franano sull’uso spasmodico e ricercato di un linguaggio comune che le medi e assottigli, e non le azzeri completamente. Ed è questo il caso di due dei più interessanti padiglioni ospitati ai Giardini: lo spagnolo e il turco. Affidati rispettivamente a Lara Almarcegui e ad Ali Kazma, artisti nati all’inizio degli anni settanta. Dunque, la Spagna e la Turchia, due lembi d’Europa, estremi l’uno all’altro, l’uno annichilito dalla propria decadenza, l’altro teso a spandere la propria influenza sul Medio Oriente più caldo e critico. Pienamente assimilato e allo stesso tempo scisso tra i due respiri più conflittuali del mondo, agisce con piglio militante Ali Kazma: la sua installazione multicanale, sovvenzionata dall’IKSV, Resistance, coglie in profondità il sentire storico della videoarte più estrema e sperimentale degli anni sessanta e settanta, non evita il dialogo con il cosiddetto cinema-direct per porsi tra le punte più avanzate e riflessive dell’attuale covata mondiale di videoartisti. Più di un anno di riprese, divise tra set cinematografici e teatrali (Parigi e New York) e location quotidiane come ospedali, carceri, scuole, laboratori medici all’avanguardia, università (Istanbul e la più lontana Sakarya, Berlino, Losanna, Londra), e spese ad indagare le strategie che regolano e disciplinano il corpo umano e come questo possa essere proiettato al di là degli attuali limiti economici, sociali e scientifici. Qui si è già oltre l’io-s.p.a. di Peter Sloterdijk. Se per Kazma il corpo umano è un tempio «in cerca d’autore» sottoposto ad onde telluriche difficilmente definibili, Lara Almarcegui insegue con raffinata acribia creativa ambienti destinati a demolizione o già abbandonati per individuare tra le rovine pieghe narrative ed esistenziali del passaggio umano e, al contrario del collega turco, colloca la propria opera esclusivamente a Venezia e nella Laguna. Così spiega il proprio progetto performativo Guida di Sacca San Mattia: «Il progetto della Guida è una pubblicazione che riguarda un’enorme isola vuota a Murano, formata dalla bonifica del canale, che più tardi diventò una discarica dell’industria del vetro di Murano e una costruzione di pietrisco; con i suoi 31 ettari, Sacca San Mattia è la più estesa superficie vuota di Venezia ed è il soggetto di numerosi e meravigliosi progetti. La guida spiega in dettaglio la storia, l’ambiente e i piani futuri dell’area, invitando il pubblico a conoscere l’isola com’è adesso: un meraviglioso luogo, aperto a molteplici possibilità».

E il progetto parallelo al Padiglione spagnolo? «C’è un grande impianto che consiste nella demolizione del padiglione, al cui interno vengono sistemati tutti i materiali utilizzati per costruirlo: 500 m³ di cemento, calcestruzzo e mattone; 50 m³ di legno; 15 m³ di sabbia; 2 m³di vetro e 0.5 m³ di ferro; in questo modo l’impianto mostra i materiali dell’edificio, riportandoci indietro a com’era prima che fosse costruito e come sarebbe adesso, se fosse demolito».

Rovine, luoghi dismessi e abbandonati… «Gli spazi distrutti – continua Almarcegui – offrono una vista del luogo che non corrisponde a un progetto architettonico specifico. Non c’è un controllo narrativo; offrono una vista della città e della sua storia, libera dal controllo degli architetti, dei politici, del marketing cittadino – molto più essenziale e ricco di storia di ogni altro spazio creato da loro».

Un’opera la sua, che si può definire di rigorosa filologia urbana, molto differente dalle performance della Land art o dal gigantismo di Christo. «Il trattamento della forma è molto diverso dalla Land Art: il mio lavoro è amorfo, non sono interessata alla forma tanto quanto loro; mi interessa maggiormente parlare delle rovine e delle terre desolate che sono le vere protagoniste».