È già passata una settimana dal 4 marzo scorso, quando un comitato di lavoratori dello spettacolo ha occupato il Théâtre de l’Odéon di Parigi, sotto l’egida dei sindacati del settore, la Cgt – Spectacle e il Syndacat des cirques et des compagnes de création, ma anche della Société des réalisateurs de films e di altre federazioni del turismo e della ristorazione. Il movimento si è poi esteso ad altri luoghi d’arte, che studenti e operai hanno occupato per protestare contro l’azione del governo.
Cinquantatre anni sono invece passati da quando l’Odéon, che si trova a poche centinaia di metri dalla Sorbona, fu preso dal movimento del maggio ’68, divenendone al tempo stesso il quartier generale e il simbolo. In quell’occasione, gli studenti detronizzarono il direttore e celebre attore Jean-Louis Barrault, bollato come «reazionario» e «piccolo borghese». Gli occupanti di oggi non ce l’hanno con le vecchie glorie e non hanno interrotto le attività in corso. Il regista Chistophe Honoré prova indisturbato le scene della sua nuova opera, Le Ciel de Nantes, e ha dichiarato di approvare l’occupazione. Né gli occupanti si sono dimostrati irriverenti nei confronti della ministra della cultura Roselyne Bachelot, che ha improvvisato una visita il 7 marzo per incontrare il comitato, ma al di là di qualche frase di circostanza ha ribadito la propria impotenza. Abbiamo bisogno di atti, non di parole – è stato il commento degli occupanti. Dal canto suo, Bachelot ha definito le occupazioni «inutili» e «pericolose».

L’8 MARZO si è avuto il solo momento di tensione quando la polizia ha bloccato l’accesso alla piazza dell’Odéon alla marcia per i diritti delle donne. Il corteo è stato comunque salutato dagli occupanti che dal tetto hanno improvvisato una buffa canzone dal refrain: «Siamo qui!». Per il resto l’azione è pacifica, ben pianificata e largamente acclamata dal mondo della cultura.
In Francia, è noto, esiste uno statuto di «intermittente dello spettacolo» che protegge dalla precarietà, e che è accessibile sia agli artisti che ai tecnici. Per ottenerlo bisogna accumulare un certo numero di ore di lavoro annuo. Sono in molti a non riuscirci. Tra gli occupanti ci sono sia quelli che hanno lo statuto che quelli che non lo hanno o che lo hanno perduto. L’occupazione mira a creare solidarietà tra loro e ad estenderla ai lavoratori di altri settori. Accanto agli studenti, ai lavoratori interinali, ci sono le hostess delle compagnie aeree che non volano più – con il loro slogan: «Non tagliarmi le ali»; i lavoratori degli hotel, il personale di pulizia e dei catering.
I metallurgici che occupano la fabbrica di Vivez hanno issato bandiere di solidarietà con l’Odéon. Come non pensare allora alla politica di decentralizzazione della cultura, con la quale i governi social-comunisti del dopoguerra cercarono di popolarizzare il teatro, e di cui resta un famoso articolo dell’«Express» del 1954 intitolato «I metallurgici e i Medici», in cui si legge di come gli operai della Renault avessero apparezzato il Lorenzaccio di Jean Vilar. Nell’occupazione di oggi c’è il ricordo orgoglioso di quella stagione. E la volontà di riconnettervisi. È il senso del video che la filmmaker Valerie Massadian, dal teatro occupato, ha inviato agli operai della SAM e della Bosch in lotta.

 

LA PIAZZETTA a mezzaluna davanti all’Odéon è di per sé un teatro, e invita alla performance. L’occupazione l’ha trasformata in un’agorà che si riunisce ogni giorno alle 14. Chiunque può mettersi in lista per parlare al microfono. Sulla facciata, sopra le colonne, la balconata è un secondo palcoscenico che sovrasta il primo. È da qui che gli occupanti salutano la folla riunita fuori. L’effetto è quello di una sorta di mausoleo di Lenin, accentuato dagli slogan che campeggiano a grandi lettere rosse: «Cultura sacrificata» e «Governo screditato». Ma l’ambiente è leggero, ironico, gioioso. E il senso è quello di ribaltare simbolicamente il rapporto tra il potere della politica e quello dell’arte. Dal basso vengono i discorsi politici. Dall’alto si risponde con la performance. Dall’agorà, Nicolas Debordes dell’Opre (Organizzazione del personale di ristorazione) ricorda la condizione dei «dimenticati della crisi sanitaria», esclusi dagli aiuti di Stato. Dalla balconata, l’attore Thibault Lacroix declama il 66o sonetto di Shakespeare «Tired with all this for restfull dead I cry» – sul suicidio e la disperazione. Arrivato alla strofa che annuncia il suicidio, sporge una gamba nel vuoto; la folla di sotto trattiene il respiro e qualcuno urla: «Nooo!». E il sonetto finisce sull’impossibilità di lasciare «il mio amore solo». La performance ricorda gli spettacoli in forma di party di Vincent Macaigne, nei quali c’è sempre un personaggio che arringa la folla con un discorso politico appassionato.
Attraverso le inferriate, Thibault ci racconta che all’interno si sopravvive grazie alla solidarietà della gente di Parigi che porta cibo, coperte e materassini. Sono sette giorni che non si lava «ma il morale è alto». Nega, come qualche malalingua ha preteso, che gli occupanti dormano sul palcoscenico. Ma non ha voluto svelare dove si coricano. «L’Odéon – ci dice – cristallizza la frustrazione dovuta alla crisi e della risposta dello Stato, che privilegia il sostegno delle grandi imprese». Ma lo Stato non sostiene la cultura? Gli intermittenti non hanno forse potuto contare su un’annata bianca, in cui sono stati pagati senza dover contare le ore? E gli spettacoli cancellati, non sono stati rimborsati?
«Ho il mio salario da intermittente, i rimborsi per gli spettacoli saltati e l’assegno di disoccupazione che insieme equivalgono al mio salario abituale», ci dice Olga Dukovnaya, danzatrice e coreografa che in più lavora anche se due volte meno del solito. Quali sono allora le ragioni della protesta? L’annata bianca è finita. E l’avvenire è incerto. «Perché sono venuto qui ? – a parlare è l’attore Thierry Devaye – Perché devo dichiarare 507 ore in agosto e non so come farò». Sul piazzale, incontriamo un altro attore, Julien Masson. Per lui l’occupazione rischia di durare a lungo. «Ma almeno gli occupanti hanno un tetto. Tutta questa faccenda mi fa pensare ad Arlecchino servo di due padroni nell’adattamento di Strehler che ho visto proprio qui».

LE RIVENDICAZIONI dell’Odéon sono in sostanza tre: ritiro della riforma di disoccupazione, rinnovo dell’annata bianca per gli intermittenti e accesso alla maternità e alla malattia per tutti i lavoratori. La scintilla i è estesa a Rennes, a Marsiglia, a Orléans, a Tarbes, a Bayonne. Una manifestazione è prevista per il 12 a Lille. Altri teatri importanti come Espaces Plurielles di Pau, L’Equinox di Châteauroux il TNS di Strasbourg sono stati occupati. La lista si diventa ogni giorno più lunga. I protagonisti sono per lo più studenti di arte drammatica, molto toccati dalla crisi. I loro insegnanti a Strasburgo, Valerie Dreville e Nicolas Bouchaud, li appoggiano.

«La primavera è qui! I giovani sono qui! Con loro, torna la speranza» ha scritto il direttore artistico del Theatre de la Colline, Wadji Mouawad, nel suo manifesto. Anche il giornalista e deputato di La France insoumise, François Ruffin, è venuto all’agorà. Si è messo in lista per prendere la parola. Arrivato il suo turno, ha parlato di Roosevelt e del New Deal, dei teatri ambulanti inviati in tutti gli angoli del paese dove Welles, Kazan e Arthur Miller sono emersi come sceneggiatori, narratori, accanto artisti come Marc Rothko e Jackson Pollock. La speranza di questo nuovo movimento democratico è che l’arte in Francia risorga dalla disperazione, come dice il 66o sonetto di Shakespeare.
(traduzione Eugenio Renzi)