Muffa, quella patina che cresce sottile ma implacabile, che divora lentamente le cose e i luoghi sgretolandoli o risucchiandoli in un’invisibilità. Ed è lungo i contorni di questa «invisibilità» coatta che Ali Aydin costruisce il suo film, premio De Laurentis per la migliore opera prima all’ultima Mostra del cinema di Venezia (era nella selezione della Settimana della critica), e ora in sala con la Sacher di Nanni Moretti. Un film duro, e dichiaratamente politico, quello del trentenne regista turco, a cominciare dalle scelte narrative e di regia che rifiutano le opposizioni più evidenti del cosiddetto cinema «impegnato» per scavare invece nel profondo di una violenza celata e permeante.

La «muffa» del titolo sembra esprimere il senso della vita di Basri, ricoperta negli anni dall’involucro costante dall’ingiustizia, e costretta a un quotidiano di uguale ritualità. Guardiano dei binari, l’uomo ormai anziano percorre ogni giorno decine di kilometri lungo la vecchia ferrovia periferica in Anatolia, solitario, silenzioso, costretto a subire le minacce di un collega più giovane e arrogante. E, soprattutto, i controlli della polizia che gli arriva in casa con puntuale tracotanza. Il figlio di Basri è scomparso diciotto anni prima, era un militante nell’opposizione al governo turco lo hanno arrestato a Istanbul durante una manifestazione senza dare alcuna spiegazione. Di lui Basri non ha più saputo nulla, la moglie è morta dopo qualche anno per il dolore, mentre Basri ogni mese continua da allora a scrivere lettere al ministero dell’interno e al questore. Per questo lo hanno spesso arrestato, torturato, e messo ai margini lasciando che il silenzio, come appunto una sorta di muffa, ricopra la sua rivendicazione. Un giorno arriva un nuovo questore, che colpito dall’uomo e da questa sua disperata resistenza, decide di rivelargli la verità …

Tra i riferimenti della storia, di cui Aydili è anche lo sceneggiatore, ci sono le «Cumartesi Annelari», le madri del sabato che in Turchia ogni settimana manifestano chiedendo al governo di rivelargli la verità sui loro figli o mariti scomparsi, anche se l’universo del film è tutto maschile, un confronto quasi «western» tra uomini che incarnano un modo di essere al mondo.
Però il passato del protagonista non è mai posto in evidenza, affiora invece lentamente, nei frammenti della sua vita, e negli scontri con l’esterno che punteggiano la sua esistenza. La politicità dunque non viene rivendicata dal soggetto ma da una messinscena che ne racchiude la sostanza. La scommessa del regista si gioca sulle persone e sulle cose, i paesaggi taglienti e gli interni opachi degli uffici con la loro burocrazia, la sospensione tra le mura domestiche, quelle di Basri, del tempo in attesa di poter rimetterlo in moto col diritto al lutto.

Il corpo del figlio scomparso, inghiottito anch’esso dalla muffa che impedisce la memoria, la giustizia, il sacrosanto lutto.  L’occhio di Aydili, che tra i suoi riferimento cita anche Dostojevski col suo bagaglio letterario di umiliati e di idioti, è lucido e sicuro, sa scavare nelle pieghe liberando in ogni immagine insieme a un vero talento da regista, la potenza emozionale della sua storia, cupa e anche avvicente, tesissima sul filo di una visualità che diventa suspence. E che ci mostra un immaginario e un paese, la Turchia, fuori da ogni luogo comune, profondamente radicati in un presente (e in un passato) irrisolti.