In attesa del ritorno in scena del «Centro di ascolto per l’informazione radiotelevisiva», il cui metodo di rilevazione delle presenze politiche – costruito sulle audience effettive e non sul mero minutaggio – tanto ci manca, dobbiamo registrare che questa campagna elettorale è «senza legge». Nel senso che la l. 28 del 2000 (la «par condicio») non esiste più. E’ ora di interrogarci sui perché della disattenzione degli organi preposti alla vigilanza. Si chieda conto. Hanno ragione, infatti, quanti hanno posto il problema: da il Giornale, a il Fatto Quotidiano. Troppo comodo protestare solo se il beneficiario della compiacenza mediatica è Berlusconi. La lex dovrebbe essere uguale e, quindi, valere anche per Renzi.

Non pare proprio, se si prendono in esame le inquietanti tabelle elaborate per il periodo 1-30 aprile 2015 dall’Osservatorio di Pavia e per quello 2-15 maggio da Geca Italia su richiesta dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.

E qui ci ritroviamo «per una selva oscura», dove «la diritta via» è altro che smarrita. Il presidente del consiglio stravince nelle presenze anche sul capo dello stato e le opposizioni sono in affanno, in proporzioni davvero inadeguate.

renzi democrazia mangia

In maggio il governo raggiunge un tempo di parola del 31% circa nel Tg1, del 28,5% nel Tg2, di quasi il 27% nel Tg3, di oltre il 24% nel Tg5. Quest’ultimo assai filogovernativo, mentre il solo Tg4 mantiene la sua antica vocazione, spesso ormai generosa con la Lega di Salvini. I dati sono in difetto, visto che riguardano i discorsi e le interviste.

Aumentano le percentuali se si guarda il cosiddetto «tempo di antenna», vale a dire il discorso sui diversi soggetti politici e istituzionali. Si arriva al 37%, insomma circa dieci punti sopra il Berlusconi del 2010. Maggiore equilibrio a La7, mentre Sky appare notevolmente “in linea”.

Non solo Tg. Dopo la partecipazione all’«Arena» di domenica scorsa, Renzi ha fatto il bis ieri sera a «Porta a porta». Tra l’altro, proprio la performance da Giletti (21,5% di share e oltre tre milioni di spettatori) ha suscitato obiezioni specifiche. E con ragione, visto che nel periodo della «par condicio» – le ultime settimane della campagna elettorale per le Regionali sono a maglie strette – la presenza di personalità politiche nei contenitori televisivi è vietata, salvo casi eccezionali.

L’occupazione sfacciata del video non è solo una sgradevole forzatura. E’ essa stessa parte del modello di potere in fieri: personalizzato, innervato sui media (altro che tweet, la faccia modernista), attraversato da spiriti dirigistici e autoritari.

La conquista dell’immaginario degli italiani è una tappa cruciale della lunga marcia post-democratica che oggi osserviamo (e subiamo).

Simbologie – perché se no la Ministra Boschi sarebbe andata a premiare i vincitori degli Internazionali di tennis?- e contaminazioni tra politica e spettacolo sono un pezzo della costruzione del «Partito della nazione», il centro di gravità permanente rispetto al quale il resto ha il rango di una periferia poco illuminata.

La «par condicio» si regge anche sulle tribune politiche, ma quelle canoniche trasmesse dalla Rai sono, purtroppo, un atto dovuto. Piuttosto che il tentativo di raccontare con originalità e senza preconcetti la politica. Meglio, la crisi della politica: tema insieme terribile e affascinante, tuttavia declinato come uno dei format usi a riempire i palinsesti.

Se la «par condicio» è morta, però, qualcuno abbia almeno il coraggio di abrogarla in Parlamento. Far finta di niente è offensivo.