Tre prospettive diverse per raccontare una tematica fin troppo trattata, ma inesauribile per definizione: la procreazione. Non sarebbe del tutto corretto, infatti, usare il termine maternità perché nei romanzi: La fabbrica di Joanne Ramos, pubblicato da Ponte alle Grazie (pp. 352, euro 18, traduzione di Michele Piumini), Eva e le sue sorelle di Tieta Madia per Marcos y Marcos (pp. 208, euro 16), Il figlio, di Sabrina Campolongo edito da Paginauno (pp. 260, euro 18), la condizione dell’essere madre non è sempre al centro della scena. Anzi.

SULLA MATERNITÀ si concentra solo il romanzo d’esordio di Ramos, autrice filippina trasferitasi nel Wisconsin con la sua famiglia d’origine da ragazzina e che non a caso dedica proprio alla madre il suo esordio letterario. La fabbrica è il luogo che nel romanzo ha anche un nome ben più accattivante «Golden Oaks»: querce dorate. Le ragazze che vi abitano, in particolare Lisa, lo chiama invece in modo dispregiativo: «the farm». Vi si «costruiscono» i bambini, per questo.

È UNA RESIDENZA in cui le giovani donne che hanno superato la selezione e firmato il contratto trascorrono i mesi della loro gravidanza in qualità di «ospiti» ovvero di madri surrogate. Ramos ci racconta di questo posto regolato da orari e controlli, che lo rendono simile anche a un luogo di detenzione, attraverso diversi punti di vista. Ogni capitolo infatti riporta il nome di una delle protagoniste del romanzo: Jane, Reagan, Ate, Mae, alternandosi in coro per tutta la durante del testo. Si tratta di due «ospiti», una filippina e una statunitense, e di due imprenditrici.

Jane è una giovane donna filippina con una figlia piccola e un matrimonio fallito alle spalle, mentre Reagan è caucasica, ma ha bisogno di guadagnare per emanciparsi dal controllo di suo padre che non la vuole artista, bensì manager dell’arte. Le due donne in carriera sono la cugina di Jane, Evelyn detta Ate (sorella), che lavora negli Stati Uniti da molti anni e si è rivelata un’ottima baby nurse, tanto che può permettersi di scegliere solo i clienti più ricchi. Ate accoglie anche delle ragazze filippine, aiutandole a trovare lavoro negli States e prendendosi a volte qualche piccola percentuale. L’altra imprenditrice, Mae, è colei che ha inventato Golden Oaks, coi finanziamenti di Leon «un ricco della vecchia guardia».

JOANNE RAMOS in questo modo costruisce la sua narrazione attraverso un’alternanza che non è solo di classe, ma razziale. Il romanzo intero sorge sul solco della frattura fra coloro che si avvalgono dei servigi delle «filippine» e queste donne che lavorano e vivono a casa di estranei, occupandosi dei loro figli fino al punto estremo di portarli alla luce. Il modo in cui le donne di ceto medio caucasiche assumono il ruolo di ospiti a Golden Oaks è infatti diverso: Reagan pensa sia un atto di generosità dare alla luce il figlio di un’altra donna che magari non può portare avanti una gravidanza, ma soprattutto i clienti pagano di più se l’ospite è bianca e ben istruita.

Nonostante la lucidità politica dell’autrice, il romanzo non è un testo che tratta della tanto dibattuta questione della maternità surrogata: è una storia, anzi un intreccio di storie che raccontano vite le quali, a loro volta, inevitabilmente sono politiche.
Per la protagonista del testo di esordio di Tieta Madia, Eva e le sue sorelle, la maternità invece è un sogno e al contempo una sorta di predestinazione. Nata in una famiglia prolifica, sente che fare figli è il primo obbiettivo che deve raggiungere, se lo immagina fin da quando è bambina e lo concepisce come un fatto scontato. Ovviamente così non è, non solo perché se non ci fosse l’ostacolo del suo utero bicorne il romanzo non avrebbe ragione di esistere, ma anche perché spesso la maternità non è affatto una scelta. E questo vale sia per le gravidanze indesiderate che per quelle fin troppo volute.

NEL TESTO DI MADIA a trascinarci nella lettura delle vicende amorose e ginecologiche della narratrice è la sua voce schietta, soprattutto il suo punto di vista estremamente consapevole: non si nasconde mai dietro al suo desiderio di gravidanza e fin dall’inizio di sé racconta solo l’indefinitezza. Dei suoi desideri, della sua personalità, il suo ignorare ciò che la renderebbe felice. Con questa stessa sincerità ci racconta anche del dolore degli aborti, del coraggio di ritrovarsi incinta e poi svuotata, descrivendo ogni perdita come un abbandono: «perché mi hai lasciata? Non stavi bene dentro di me?».

Nell’opera prima di Sabrina Campolongo, Il figlio, se una relazione è al centro del testo, è la paternità. Tommaso è il figlio di un attore famosissimo che all’inizio del romanzo muore. Un padre che il primogenito ormai adulto detesta con tutto se stesso. Il testo conduce i lettori a comprendere le ragioni di questo astio profondo e solo allora, quindi, a incontrare il tema della maternità.

SI TRATTA di un romanzo dall’intreccio ben costruito, una di quelle storie che si ha voglia di leggere in cui ti affezioni ai personaggi, riesci a immaginarli perché Campolongo ha saputo dare loro vita. E non a caso allora in questo romanzo dell’essere madre viene raccontato qualcosa di scomodo che molto spesso si tace: la violenza e la malattia mentale.