Difendere e valorizzare il proprio passato artistico è un esercizio in cui i francesi non sono secondi a nessuno. Le Pré aux Clercs, opera di Ferdinand Hérold (1791-1833), ambientata in un angolo fuori porta di Parigi, lontano dal diventare regno degli esistenzialisti e culla del Sessantotto, racconta amori, intrighi, lotte interreligiose e duelli all’epoca di Marguerite de Valois ( la reine Margot). Improntata a un clima più leggero e civettuolo rispetto al grand opéra Les Huguenots di Meyerbeer, l’opera, su libretto tratto dalle «Cronache del regno di Carlo IX» di Merimée, ottenne un successo strepitoso sin dalla sua creazione all’Opéra Comique nel 1832, con oltre milleseicento repliche fino al secondo dopoguerra.

Poi l’oblio, da cui la riscatta la produzione sostenuta dal Centro Palazzetto Bru Zane e prossima a diventare un disco alla Fondazione Gulbenkian di Lisbona, per approdare poi al Festival di Wexford in ottobre. Guidato con mano di sicura da Paul McCreesh sul podio dell’Orchestra Gulbenkian, il cast offriva una felice omogeneità.Musica gradevolissima, d’innegabile ricalco rossiniano ma già organizzata con soluzioni formali, ritmiche, invenzioni melodiche di marcata identità francese, Le Pré aux Clercs chiede un perfetto dominio della recitazione nei molti dialoghi parlati. È stata infatti la leva che ha usato il regista Èric Ruf, attuale direttore della Comédie Francaise: «Credo che un attore possa aiutare al meglio, negli spazi acusticamente perfetti di questa sala, i cantanti che devono affrontare un’ardua sfida sui parlati, fondamentali per la drammaturgia; l’impegno era di ottenere livelli di pronuncia e recitazione omogenei dai cantanti madrelingua e stranieri».

«Tutti artisti disponibili – conferma Ruf – a lasciarsi guidare nei passaggi parlati che in duetti e ensemble che sono vivi snodi drammaturgici». «La seconda sfida – continua – era raccontare l’epoca della Reine Margot senza invenzioni stranianti, con un impianto tradizionale, magari depurato da qualche clichés, ormai una rarità e perfino un rischio a Parigi. Ho cercato di seguire l’esperienza di alcuni spettacoli della Comédie Francaise».

Nell’opera però – ammette il regista- «i passaggi di esaltazione dei protagonisti, che passano dalla recitazione al canto sono di grandissimo fascino, perché sono simili all’esaltazione dell’attore ma più travolgenti, grazie alla presenza alla magia della musica. Credo che la sfida sia stata vinta».