«Per fortuna abbiamo Ken Russell, quell’adorabile mostro» Commentava così Michael Powell l’osservazione del giornalista Ian Christie sul proliferare dei musical, o dei film massicciamente improntati sulle sette note, nel cinema inglese verso la metà degli anni 60.  Affinità elettive? Perché no: oggi Powell e il sodale Emeric Pressburger sono praticamente canonizzati dalla comunità cinematografica mondiale ma la sfrenata fantasia visiva mista a uno slancio creativo senza precedenti, nei bombardati anni 40 del dopoguerra inglese, erano visti come un affronto, quasi, con le dovute proporzioni, come il cinema iconoclasta di Russell nei «liberissimi» ’70. Ken Russell infatti viene sempre accostato a un cinema kitsch, preda di un delirante barocco senza freno e ridondante nella sua eccessiva formalizzazione. Ma, se è giusto riconoscere in lui un gusto per l’eccesso forse un filo accentuato, in pochi hanno sottolineato l’elaborata costruzione dei suoi lavori, la tensione religiosa e il ribaltamento della concezione musicale all’interno di un film.
Oggi, grazie alla Cineteca di Bologna, fino al 6 giugno è possibile riscoprire la portata rivoluzionaria di questo regista tartassato, scomparso nel novembre del 2011, grazie a una selezione di opere difficilmente recuperabili altrove. Cineasta per caso, dopo un apprendistato che comprende recitazione, danza e fotografia, Russell cresce artisticamente alla corte della BBC, realizzando nel corso di una decina d’anni numerosi documentari per il programma Omnibus, quasi tutti ritratti di grandi compositori, prove tecniche di trasmissione per le future biografie musicali al cinema, come Claude Debussy, Edward Elgar e Bela Bartok. Fin da questi primi lavori la poetica di Russell è definita al punto giusto: il centro espressivo è il sempiterno conflitto tra illusione e realtà, tra le forme attraenti e al tempo stesso ripugnanti che diventano finzione, contraddicendo la vita stessa, accentuata nei contrasti e non nella bellezza.

L’operazione viene eseguita su materiali artistici molteplici: rischiosi adattamenti letterari, uomini maledetti da resuscitare, tra i tanti Dante Gabriel Rossetti e Henri Rousseau, ma soprattutto è fortissima l’esigenza di filmare la musica, in tempi e modalità assolutamente inedite per la Settima Arte. Il regista infatti crea uno spazio nuovo, uno «spazio musicale», inteso come luogo cinematografico nato in funzione della fonte musicale e non viceversa, un punto d’incontro fatto di suggestioni personali e influenze cinematografiche e pittoriche. All’alba degli anni ’70 il salto nel grande schermo è d’obbligo: nel 1969 arriva la trasposizione del capolavoro di D. H. Lawrence Donne in amore, con la controversa scena di wrestling senza veli, mai visto in precedenza un nudo maschile in un film prodotto da una major, poi la prima biografia musicale dall’allusivo titolo L’altra faccia dell’amore.
Ma il film che lo segnerà per sempre è I diavoli, tratta dal libro di Aldous Huxley, sequestrata e dissequestrata almeno una dozzina di volte a causa della carnale e orrorifica rappresentazione del repressivo e feroce Cattolicesimo del 17esimo secolo. Russell attrae e disgusta, ferisce e subisce un massacro mediatico senza precedenti che lo spingerà negli anni successivi a contenere la dissacrante e anti-costituzionale furia, rifugiandosi nella nostalgia artistica per il musical americano delle geometrie di Busby Berkeley (Il Boyfriend), nell’opera-rock, tratta dal concept album degli Who, Tommy e nelle vite di scultori e compositori come Liszt e Mahler (Lisztomania e La perdizione).

Il rapporto fra Russell e i suoi personaggi è stato lungamente discusso nel corso della sua carriera, tanti i rimproveri al regista di deformare i dati biografici e storici per ricostruire esistenze al servizio della sua poetica cinematografica, ma questa deformazione altro non è che un modo personalissimo di esprimersi attraverso la forma del ritratto, abbandonando il rispetto freddo ed accademico tipico del biopic. Verso la fine degli anni 70 la madre patria lo spinge, dopo l’ennesimo flop al botteghino con Valentino, a migrare verso i più disponibili lidi statunitensi ma, dopo l’euforia per quel piccolo capolavoro di fantascienza lisergica di Stati di allucinazione, ben presto compaiono i manierismi, le sterili provocazioni e una lenta ma inesorabile agonia professionale. Il vecchio leone tornerà solo in anni recenti in patria, relegato a qualche produzione di bassa lega e alle classiche ospitate televisive all’insegna dell’eccesso e del ridicolo.