Per la stampa francese Mia madre è fino adesso la Palma d’oro 2015 (classifica pubblicata sull’edizione quotidiana di Le film français), applauditissimo anche alla proiezione ufficiale, mentre tra i critici internazionali interpellati da Screen in testa è balzato Carol, il magnifico film di Todd Haynes. A inizio della nuova settimana è ancora presto per i bilanci ma una cosa possiamo dirla: il segno dominante di Cannes 68 è la coda. Figura non metaforica sovrasta come il peggiore degli incubi i sonni già difficili – e minati dalle massicce dosi del nescafè sponsor distribuito gratuitamente nel Palais – dei festivalieri.

Che coda sarà è la domanda più frequente della meteo, stavolta col sole caldo di un’estate precoce e quasi canicolare. Si fa la coda per entrare nel Palais, ragioni di sicurezza, per le proiezioni dove si deve arrivare sempre con largo anticipo, per le toilette. Si fa la coda sui marciapiedi, in strada, tra la folla. Le strutture sono evidentemente ormai inadeguate, sulle pareti del Palais ci sono i progetti per le modifiche future, nuovi spazi e sale davvero necessarie per sintonizzare il Festival con le sue ambizioni.

Secondo film francese del concorso firmato da Stephane Brizé, regista piuttosto sconosciuto almeno a livello internazionale (ma nel 2010 ha vinto un Cesar per Mademoiselle Chambon) che arriva con La loi du marché, girato «alla» Dardenne, vedi un manierismo ormai abbastanza insopportabile da indossare come una divisa quando si parla di crisi economica oggi, innestato nella «lezione» Dogma del primo von Trier. Perciò: basso budget, troupe ridotta, ventuno giorni di riprese, niente trucco né sceneggiatura, digitale ma una grossa star 6° arrondissment (là dove abita anche Catherine Deneuve) quale Vincent Lindon. Il risultato è un film sintonizzato su quella tendenza che nella scelta della selezione francese sembra prevalere: storie legate alla realtà, con un taglio che funzioni per tutti e soprattutto con attori/star, elemento quest’ultimo decisivo. Difatti: non è certo molto «impegnato» Mon Roi di Mainwenn, il primo dei film targati Francia in gara – ma qui andiamo verso l’altro refrain retorico del Festival, ovvero il cinema delle donne – dove però i protagonisti sono Emmanuelle Bercot (regista del temibile film di apertura) e Vincent Cassel, senza dimenticare che Mainwenn selezionata con Polisse (premio della giuria nel 2011) è una beniamina.

Mon Roi è una storia d’amore proprio come L’ombre des femmes, ma appunto forse la coppia Bercot/Cassel è più accattivante che quella garreliana della splendida Clotilde Courau e Stanislas Merhar. Perché se Garrel declina con umorismo e lucidità contraddizioni e nevrosi del maschile (e del suo confronto col femminile) in: «lui l’amava, lei lo amava, si sono lasciati» (frase del Festival), Maiwenn non mette a fuoco né l’uno né l’altro, attaccandosi al solito giochetto del maschio stronzo-ma-fascinoso- e della donna che ha ragione ma diviene insopportabile. La «radiografia» di innamoramento, crisi, noia arrivo del figlio ecc ecc è un susseguirsi di banalità prevedibili nella struttura narrativa – una serie di flashback mentre la protagonista, Emmanuelle Bercot, è in una clinica dopo una dolorosa caduta dagli sci – e di una riabilitazione speculare (il ginocchio corrisponde allo stato d’animo) all’equilibrio delle emozioni.

Tony (Bercot) ha incontrato Giorgio (Cassel) in discoteca, lei è avvocato, lui ha un ristorante, pieno di soldi, tipico arricchito firmato (come circolano parecchi a Cannes) passione per le giovani modelle (un personaggio simile al sovrano in Il racconto dei racconti di Garrone) diviene il «suo» Re. E come tutti i Re dispone di lei a suo piacimento: fanno un figlio, la lascia, la tradisce, e lei è sempre lì addicted di una droga amorosa per cui nessuna cura funziona. Il fatto è che seppure il punto di vista narrativo coincide con il personaggio di Tony visibilmente Maiwenn è sedotta dal fracasso volgare di Giorgio, anzi sta dalla sua parte, ne è sedotta lei stessa. Niente di male ma allora perché non dichiararlo e assumersi il rischio di ribaltare il film?Magari sarebbe stato più ricco di sfumature, e meno isterico di come è.

La loi du marché ovvero La legge del mercato, già dal titolo è una dichiarazione di intenti. Si può essere ancora generosi nei tempi del precariato neo liberista dell’Europa di banche e governi di tagli e nuove regole? Diciamo che la situazione è un po’ la stessa di Tre giorni, una notte (Dardenne appunto) con Cotillard operaia che chiede ai colleghi di scegliere tra il bonus di 1000 euro e la sua riassunzione in fabbrica. Lindon è un operaio che ha perso il lavoro, alla sua età non è facile cosi è grato al supermercato che lo assume nella sicurezza. Ha una moglie e un figlio disabile, deve pagare il mutuo per lui è una salvezza. Ma: che fare coi clienti tipo i pensionati che non riescono a mangiare e rubano, e i colleghi che «arrotondano» la cattiva paga? Denunciare, perché è il suo lavoro anche se fa male ogni giorno di più. Quello che Brisè non ha imparato dai Dardenne – molte cose ma questa in particolare – è che i due fratelli belgi non cercano mai una giustificazione (figli tossici, disabili ecc) la tensione morale si svolge su un altro piano che prevede delle scelte senza contesto che le motivi o ne stemperi la natura.

E soprattutto senza eroismi il che denuda la realtà in maniera implacabile illuminando (e anche senza cinismi che del sentimentalismo sono l’altra parte) la perdita di un senso morale, etico, di solidarietà del tempo. Non si torna a casa tranquillizzati, accarezzati nelle nostre «buone» e rivendicative coscienze come invece avviene in questo film in cui la solidarietà piomba come il «lieto fine» (e una sceneggiatura che serve a non interrogarsi (e a non interrogare), indignandosi il giusto. Tra i diktat di banche centrali e Fondi monetari però non ci sono eroi forse movimenti organizzati, e possibili resistenze politiche (vedi Tsipras). E questa è un’altra storia.