Race recita il titolo originale che significa sia corsa che razza, perfetto per un film su Jesse Owens afroamericano plurimedagliato olimpico a Berlino 1936, campione contro i pregiudizi negli Stati uniti e nella Germania nazisti. In Italia si è quindi reso indispensabile aggiungere un sottotitolo: il colore della vittoria. Siamo, è chiaro, nell’ambito del film biografico che racconta di James Cleveland Owens, detto Jesse perché la maestra non aveva capito bene il nome J.C. pronunciato geisi è quindi diventato Jesse, rimanendogli felicemente appiccicato per una vita. Vita dura perché per i neri non è semplice oggi, figurarsi nei primi anni ’30 quando la Grande Depressione si era divorata il sogno americano.

Jesse però ha un talento, naturale, corre come se volasse, è talmente bravo che la compagna, poi moglie, è costretta a dirgli che il suo talento sta nella corsa e non nel ragionamento. La corsa lo porta all’università, segregato negli autobus, negli spogliatoi, ovunque. La gente lo insulta come una scimmia quando appare in pista, poi però quando frantuma quattro record mondiali in una seduta, solo tre omologati, allora lo trasforma in eroe. Gli Stati uniti sono lacerati, come il comitato olimpico che deve decidere se partecipare alle olimpiadi del nazismo oppure boicottarle (58 favorevoli, 56 contrari).

A favore è Avery Brundage, milionario, figura destinata a diventare fondamentale non solo per quelle olimpiadi ma per il comitato olimpico internazionale. Lui va a visitare Berlino per capire se sia il caso di mandare gli atleti, vede Goebbels (i dialoghi del film tra i due sono un po’ sovraccarichi) chiede una tregua visiva nella guerra agli ebrei (scritte nelle strade, deportazioni, vessazioni) e la ottiene perché è troppo importante l’appuntamento per il regime che vuole usarlo come vetrina.

E qui il racconto si smarrisce in troppi spunti, anche rilevanti ma dispersivi: prima un amorazzo di Jesse a far infuriiare Ruth, all’epoca solo fidanzata ma già madre della loro prima bimba, poi l’associazione per l’affermazione dei neri d’America che attraverso il suo segretario, di nome White, non vuole che Jesse partecipi alle Olimpiadi. E ancora, Leni Riefenstahl protetta da Hitler e detestata da Goebbels, gli scontri tra allenatori del team americano, gli odiosi compromessi imposti da Brundage. Alla fine si rischia di smarrire un po’ la bussola perché quel che tutti sanno è che Owens vinse quattro medaglie d’oro a Berlino, 100, 200, lungo e staffetta 4×100, tutti sanno che i nazi non presero bene di essere stati battuti in casa da un «negro», ma forse meritava più spazio proprio la vicenda sportiva.

Certo si sottolinea l’amicizia di Luz Long, l’atleta tedesco che aiutò Jesse nel decisivo salto di qualifica per la finale e che lo portò al giro d’onore, per poi essere punito dai nazisti. Divertente l’aneddoto delle scarpe cercate da Larry Snyder, il personal coach di Owens a Berlino. Va in cerca di Adi Dassler, l’uomo che creò la Adidas e fece fortuna forse proprio a partire da Owens. Nel film è tutto un po’ troppo romanzato, quindi mentre cerca Adi vede deportare degli ebrei.

Il racconto in questo modo anziché arricchirsi sembra spuntarsi, disperdersi per accumulo eccessivo di elementi. Forse perché quando la leggenda incontra la realtà è la leggenda che prevale. E allora sull’argomento meglio leggersi L’ultima estate di Berlino di Federico Buffa e Paolo Frusca (Rizzoli). Mentre il dato più rilevante è proprio quello sportivo e razziale, il dato che porta Owens in trionfo sulla quinta strada di New York, ma lo costringe all’entrata di servizio nel grande albergo dove viene celebrato con una cena in suo onore. Ecco, Owens è stato un grande e inarrivabile atleta però, in fondo, non gli hanno mai perdonato di essere nero. Le sue vere celebrazioni sono postume, quando ormai lui se n’era andato.

Per affrontare la storia di Jesse Owens così come ha fatto il regista Stephen Hopkins sulla base della sceneggiatura di Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, sarebbe stato meglio puntare su una piccola serie tv, in modo da poter dare spazio e risalto adeguato ai diversi personaggi e alle diverse storie che si incrociano. John Boyega avrebbe dovuto essere Jesse, ma le sirene di Star Wars lo hanno portato nel fantasy, così è subentrato l’esordiente Stephan James che offre comunque un’interpretazione più che dignitosa di un personaggio strapazzato dagli eventi e dalle persone. Jason Sudeikis è il fedelissimo coach che permette al talentuoso giovane di mettere a frutto quel che la natura gli ha regalato, William Hurt che nel comitato olimpico è per il boicottaggio, mentre Jeremy Irons dà corpo al ricco filibustiere Avery Brundage.