Lei è una giovane con voce e talento, la notte canta in locali drag queen, il giorno (ovviamente) fa la cameriera vessata dall’insopportabile proprietario di un ristorante hipster. Lui è una star, musicista adorato e perseguitato dai fan, con passione addicted per l’alcol più di ogni altra cosa. Una notte cercando del gin lui finisce nel locale dove lei canta: la voce di quella ragazza lo conquista prima di ogni cosa, e lei con la sua energia piena di vita pure. Bradley Cooper per il suo esordio da regista si confronta con un superclassico della storia del cinema anche se la sua versione di È nata una stella più che a quella di Cukor (1954) con la coppia James Mason e Judy Garland, o alla successiva di Frank Pierson (1976) con Barbra Streisand e Kris Kristofferson – la prima, del 1937, scritta da Dorothy Parker, Alan Campbell e Robert Carson era stata realizzata da William Wellman – guarda al presente, e soprattutto si concentra sulla sua protagonista, Lady Gaga.

Nel racconto di due destini che si incontrano per andare – ineluttabilmente – in direzioni opposte, la rockstar verso la decadenza, la ragazza nel futuro di un luminoso successo – Cooper che è anche sullo schermo nel ruolo del musicista sfasciato, Jackson Maine, sembra quasi voler ricreare la storia di Lady Gaga nel personaggio di Ally, debutto country sul palco in un amoroso duetto con Maine, per poi trasformarsi in diva pop.

E questo è forse l’aspetto più interessante di un film che si perde nel melò più prevedibile di lacrime e dolori dell’amore assoluto e «dannato» come quello tra Maine e Ally, per il quale l’happy end di una vita a due felice non esiste – e la società dello spettacolo c’entra poco o nulla. Progressivamente le vicende si sovrappongono, il centro è Ally/Lady Gaga, presenza che nel contemporaneo riesce a restituire l’amore rapace e warholiano della celebrità. «Devi essere fedele a te stessa» le ripete Maine, preoccupato che il successo ne snaturi il talento. Eccola dunque nel romanzo della ragazza senza trucco, capelli castani e naso troppo grosso – «Posso toccarlo?» le chiede lui – capace di prendere a pugni un fa che lo infastidisce mentre loro vogliono solo bere tranquilli…

Spogliata del «travestimento» patinato, con in mano la chitarra della giovane timida che lui lancia per la prima volta davanti a migliaia di spettatori, Lady Gaga scompiglia i riferimenti riconoscibili, a cominciare da quelli con sé stessa, in un giocoso (e ironico) teatro delle illusioni.

La «storia» però sovrasta l’intuizione, spegne lo splendore del falso del suo inizio per ritornare allo schema delle tappe obbligate, a quel movimento di «ascesa» e discesa» che stritola la coppia. È come se Cooper decidesse di scegliere il conforto rassicurante dello script in cui si appiattiscono anche i due personaggi perdendo le stranezze, buffe e romantiche; più riconoscibili, senz’altro più sintonizzati, lei specialmente, con l’immagine «vera» della celebrità e con le attese di chi guarda.