«Era impossibile mantenere i contatti con chi era assediato dentro. Ho pensato che una radio potesse essere il modo per comunicare con la mia gente». Mohammed al-Musalli ha 28 anni e vive a Mosul. O meglio ci viveva: quando lo Stato Islamico ne ha fatto la sua capitale in Iraq, nel giugno 2014 Mohammed e la sua famiglia sono fuggiti. Oggi è tra i fondatori e i manager di Alghad Fm, la prima radio a portare musica, notizie e programmi culturali in un roccaforte islamista, di cui parla ad al Jazeera.

Va in onda tutti i giorni, 24 ore su 24, dal marzo 2015 dopo aver ricevuto il via libera del governo regionale del Kurdistan. Alghad Fm, infatti, non va in onda da Mosul (tra gli obblighi introdotti dall’Isis c’è il divieto ad ascoltare musica e usare internet, per cui bandite sono anche le radio) ma dalla linea del fronte. Il più vicino possibile a Mosul così da farci arrivare il segnale: «Sono state necessarie sette ore per installare i trasmettitori, le antenne, l’infrastruttura elettrica».

Subito dopo il via alle trasmissioni, lo Stato Islamico ha vietato la vendita di radio, ma ogni casa e ogni auto ne hanno una. Poi ha aperto la propria emittente radio per coprire la frequenza di Alghad, senza però riuscirci: Mohammed e i suoi colleghi hanno cambiato le frequenze usando le informazioni che arrivano dai residenti. In città ci si nasconde per ascoltare le notizie da fuori e per comunicare con la radio, così da far sapere al resto dell’Iraq cos’è la vita sotto il “califfato”: le regole, le violenze, la frustrazione, l’assenza di servizi.

Così la gente di Mosul resiste. Fuori, il governo centrale di Baghdad e i suoi alleati-avversari imbastiscono l’operazione per liberarla. Se ne parla da due anni e ora, dopo aver ripreso Tikrit, Ramadi, Fallujah, Sinjar, tocca alla seconda città irachena. Nelle ultime settimane l’esercito iracheno si è avvicinato: lo scorso fine settimana le truppe di Baghdad hanno preso il distretto di Sharqat, via di rifornimento dell’Isis a Mosul. Ma resta ancora distante.

In mezzo si infila uno dei principali sponsor di Erbil, la Turchia, che da un anno è fisicamente presente all’interno della base peshmerga di Bashiqa – alle porte di Mosul – nonostante le proteste di Baghdad, rimaste inascoltate dalle orecchie della comunità internazionale. Domenica il presidente Erdogan ha detto che l’operazione per Mosul sarà lanciata il 19 ottobre: «Dovremo essere pronti a questo evento».

Erbil non commenta, né tanto meno lo fa Baghdad: intorno alla città, capoluogo della provincia di Ninawa, ci si gioca molto del futuro del paese. Il governo centrale continua pubblicamente ad insistere perché truppe straniere non siano presenti, né lo siano i peshmerga. Ma dietro le quinte, secondo Erdogan, il presidente kurdo Barzani sta definendo i dettagli della controffensiva con iracheni e statunitensi.

Impossibile lasciare in un angolo l’Iraq mentre la Siria brucia. Come impossibile è dimenticare l’Isis, con i piedi su entrambi i lati del confine: ieri l’ennesimo attentato a Baghdad ha ucciso otto persone, una scia ininterrotta da ormai due anni che si è intensificata nel momento in cui ha perso territorio. Nella vicina Siria governa indisturbato un terzo del paese, muovendo cellule su tutto il territorio mentre la comunità internazionale si impantana nella guerra civile.