Quando Franco Russoli morì, improvvisamente, nel marzo del 1977, l’Italia perdeva uno degli uomini più importanti per i suoi musei. Nato nel 1923 a Firenze, aveva studiato a Pisa dove si era laureato nel 1944-’45 discutendo una tesi sui Macchiaioli con Matteo Marangoni. L’ingresso nella Soprintendenza pisana gli permise di lavorare al fianco di Piero Sanpaolesi e di iniziare a familiarizzarsi con il problema del riordino di un museo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ottenuto il trasferimento a Milano nel 1950, Russoli giungeva nel capoluogo lombardo al fianco della prima direttrice della Pinacoteca di Brera: Fernanda Wittgens. È merito suo l’aver messo in salvo i capolavori della Pinacoteca e del Museo Poldi Pezzoli dai bombardamenti che non risparmiarono Milano durante gli anni della guerra.
L’infaticabile Wittgens
Di fronte alla necessità dei restauri e della riapertura dei musei cittadini Wittgens è un’infaticabile ed energica riorganizzatrice. È facile immaginare come, nel dialogo con lei, il giovane Russoli avesse fatto proprie alcune delle istanze più urgenti per la restituzione dei musei milanesi. Incaricato di occuparsi del Poldi Pezzoli, quasi del tutto distrutto dai bombardamenti del 1943, riesce a riportare il museo alla città dopo anni di intensi restauri. Risalgono a quegli anni difficili i primi articoli che il futuro direttore di Brera scelse di inserire in una raccolta di scritti apparsa postuma, nel 1981, presso Feltrinelli, intitolata significativamente Il museo nella società.
Al principio il libro doveva uscire da Einaudi, ma poi il progetto naufragò e la vedova Russoli scelse l’editore milanese. Snodandosi attraverso i decenni (gli ultimi testi inseriti nell’antologia risalgono all’anno della morte), le pagine di Russoli restituivano le differenti tappe di una carriera che non ha mai cessato di porsi domande radicali attorno al ruolo, alla funzione, ai compiti del museo nel tessuto più ampio della città, dello Stato, della società. Oggi quelle pagine sono state ristampate da Skira, Senza utopia non si fa la realtà Scritti sul museo (1952-1977) (pp. 280, 26 ill., € 38,00, a cura di Erica Bernardi).
Rispetto all’originaria silloge feltrinelliana, organizzata per nuclei tematici, la curatrice – alla quale è stato affidato l’archivio dello studioso, che ci si augura sia reso disponibile per la consultazione pubblica – ha meritoriamente ripristinato, appoggiandosi ai materiali preparatori approntati per Einaudi, quello che doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, l’ordine dei testi. Delineatasi l’idea negli anni settanta, iniziò a raccogliere i testi con l’aiuto di Fiorella Minervino, la sua assistente. E in certo senso la raccolta porta con sé la traccia di quegli anni radicalmente, utopicamente, sperimentali. Seguire questi scritti vuol dire anche avere un’idea di quelli che furono i problemi che si trovò ad affrontare nel corso degli anni un direttore che tentava strenuamente di rendere moderno il suo museo. Quando era diventato direttore di Brera, nel 1957, Russoli aveva portato avanti quelle che erano le principali direttrici del lavoro di Fernanda Wittgens: attenzione alla didattica, alla divulgazione nelle sale del museo, un continuo esercizio per dare vita e corpo al «museo vivente», un’istituzione cioè che rivolgesse il suo sguardo al più ampio numero possibile di cittadini, nella certezza che il valore di istituzioni come i musei stesse proprio nella loro capacità di farsi punto d’incontro, se si vuole anche identitario, di una società civile.
La necessità di saper fare dialogare il museo con la società, di aprirlo alla cittadinanza e di renderlo un luogo vivo sono alcuni degli aspetti che caratterizzarono l’impegno di Russoli. Sin dai primi convegni ICOM tenutisi a Milano negli anni cinquanta, guardando soprattutto a quello che si stava facendo negli Stati Uniti, si avverte, leggendo gli interventi che il direttore consegnava alle riviste o ai quotidiani, tutta la tensione sperimentale e progettuale di una stagione che aveva alle spalle la tragedia della guerra ma che era carica di slancio verso il futuro. Ma c’è anche la denuncia dello stato di incuria e sostanziale abbandono della «cultura» (nel senso più ampio in cui questo termine si può intendere) di un capoluogo come Milano. Esauritesi le istanze di rinnovamento del dopoguerra, quando bisognava fronteggiare la ricostruzione e bisognava fare ripartire il Paese, sin dal 1969 si levano le voci che chiedono un rinnovamento, che auspicano una differente gestione della cultura. Tra queste anche quella di Russoli che, nominato Soprintendente alle Gallerie di Milano e della Lombardia nel 1973, per far fronte alla situazione sempre più critica dei musei milanesi alla denuncia fa seguire i fatti e chiude la Pinacoteca di Brera nel 1974. Un gesto radicale, e coraggioso. I problemi sul tappeto: lo stato di degrado dell’edificio, la necessità di riorganizzare gli spazi per una collezione che – anche grazie all’attività di Russoli stesso – si stava arricchendo sempre più, la mancanza di fondi che permettessero l’adeguato funzionamento del museo. E tra le cose che permettono a un museo di «funzionare», il direttore elencava gli uffici, i laboratori, le raccolte grafiche, gli archivi: insomma, tutto quello che rende un’istituzione come il museo un organismo vivo e un elemento indispensabile all’ecosistema del tessuto sociale in cui è inserito.
La mostra del 1976
Quella che fu una vera e propria denuncia fece sì che lo Stato stanziasse dei fondi destinati ad avviare le prime ristrutturazioni. Fu così possibile riaprire una decina di sale del museo, ed esporvi i progetti per la «grande Brera». È da questo momento di profonda crisi e messa in discussione che nasce quel progetto. L’idea era rendere tutto quanto il complesso braidense (Pinacoteca, Palazzo Citterio, Orto Botanico) un organismo unico, grande e vivo capace di essere un faro per la cultura di Milano e del Paese. L’avvio concreto del progetto risaliva a qualche anno prima, al 1972, quando lo Stato aveva acquistato Palazzo Citterio e lo aveva destinato alla Soprintendenza milanese. Da quando quell’impresa ha preso le mosse sono passati ormai quasi cinquant’anni e, purtroppo, tutti sappiamo che, se andrà bene, la «grande Brera» vedrà la luce solo tra qualche anno. Nel 1976, quando inaugura la mostra Processo per il museo, Russoli mette in campo tutte le proposte per il rinnovamento del complesso di Brera: sono esposti i diversi progetti di ristrutturazione, ma anche i lavori fatti, la consistenza delle collezioni. Insomma, una mostra in cui a esporsi è il museo stesso. Un atto di profonda onestà intellettuale nei confronti di coloro che, in ultima istanza, dovrebbero essere i destinatari di queste operazioni: i visitatori.
Pagine, quelle di Russoli, che suonano purtroppo – e inquietantemente – attualissime. Alla martellante e vuota retorica che senza distinzione di parte o partito tartassa i disastrati beni culturali, svuotando di senso sia il concetto di «bene» che quello di «cultura», un antidoto potrebbe essere offerto proprio dagli scritti raccolti in questo volume, nonostante per come poi le cose sono andate – e per come stanno ancora oggi – essi assumano una sfumatura quasi tragica. Come scrisse poco prima di morire, il museo dovrebbe essere un luogo in cui si realizza la ricerca, un luogo che renda «l’uomo libero in quanto informato. Un luogo di impegno, non di evasione o di isolamento o di separatezza».