«Quando sono stati al nostro fianco? Quando?». La domanda, retorica, rivolta agli israeliani bianchi è di Eyal Gato, ebreo etiope di 33 anni. È arrivato in Israele nel 1991 con i voli dell’Operazione Salomone con cui Tel Aviv fece immigrare 14mila etiopi di religione ebraica nel paese che voleva vincere la sua battaglia demografica contro i palestinesi.

Oggi i falasha sono 135mila e l’inclusione nella società israeliana è ancora un miraggio. Ebrei di serie B, e lo sanno. Per questo l’uccisione, domenica, del 19enne Solomon Tekah per mano di un poliziotto fuori servizio, ha riacceso la rabbia. Ieri per il terzo giorno sono scesi in piazza, stavolta anche nelle grandi città, Haifa, Tel Aviv, Beer Sheva. «Black lives matter», gridano mentre bloccano le strade, ribaltano auto e le danno alle fiamme e si scontrano con la polizia, che risponde con lacrimogeni e bombe sonore.

Nel centro della capitale, l’altra notte, è stata guerriglia urbana. Il bilancio è di oltre 130 arresti e 111 feriti, tra manifestanti e agenti. E la polizia prova a spegnere la tensione che fomenta ogni giorno: il ministro della sicurezza pubblica Erdan vanta progressi, perché si sarebbe registrato un declino del 21% nelle detenzioni di falasha.

Tutti, a quanto pare, tentano la mediazione: l’ex premier Barak (pronto a un ritorno sulla scena) ha visitato la famiglia di Solomon e il leader di Blu e Bianco Gantz, principale sfidante di Netanyahu, ha invocato la «lotta al razzismo»: «Siamo fratelli». Identico il messaggio del presidente Revlin, ma ai manifestanti le parole interessano poco. Pesano molto di più decenni di marginalizzazione, che nemmeno l’uniforme dell’esercito indossata da tanti ebrei etiopi ha attutito.

Intanto emergono dettagli sull’omicidio: l’agente (sotto indagine del ministero della Giustizia, ma a piede libero) ha detto di essere stato colpito da Tekah con una pietra e di aver aperto il fuoco. Gli amici del giovane, invece, dicono di essere stati vessati dal poliziotto che ha sparato mentre cercavano di scappare.