Erano seduti nei cafè a guardare in tv i quarti degli Europei, sullo schermo c’era Italia-Germania. Erano con le figlie a fare shopping nel centro commerciale per prepararsi all’Eid, la festa islamica di fine Ramadan. Compravano cibo per celebrarlo al meglio, vestiti nuovi per festeggiarlo. Erano usciti dopo un lungo giorno di digiuno. Fumavano un narghilè, bevevano un caffè.

Questo facevano le 213 persone che sabato notte sono morte bruciate e soffocate in uno degli edifici più noti del centro di Baghdad, il centro commerciale del quartiere di Karrada. Forse immaginarli prima che un kamikaze dell’Isis facesse saltare in aria un’autobomba li libererà dalla schiavitù dei bilanci asettici. Come conoscerne le storie. Zainab Mustafa ieri girava tra le macerie con le foto del marito e dei due figli: erano a Karrada per comprare vestiti. Fadhle Salem cerca due fratelli, quella sera nel negozio di famiglia. Sami Kahdim scava tra le rovine per trovare l’amico Mustafa: poco prima dell’attacco gli aveva portato del succo di arancia e poi era andato a dormire.

Una mattanza: intere famiglie cancellate, 213 morti accertati, ma altri potrebbero riemergere dalle macerie dei palazzi. Oltre 200 feriti, molti gravi. E vanno aggiunte le 5 vittime del secondo attacco che ha colpito poco dopo il quartiere di Shaab a nord della capitale. I paramedici dicono che ci vorranno giorni prima di recuperare tutti i corpi, provare a rimetterli insieme e dargli sepoltura.

«Non è possibile sapere a chi appartengano certe parti del corpo», dice uno dei soccorritori. Intorno, oltre gli scheletri delle auto, i vetri a terra, il sangue rappreso sul cemento, la gente di Baghdad lascia una candela. Cartelloni appesi su quel che resta dei negozi sventrati riportano i nomi delle vittime, quelle identificate.

Ma il tempo della sofferenza, immane e continua, come un sudario appiccicata alla città, ha presto lasciato lo spazio alla rabbia. Una rabbia sorda figlia di frustrazione e senso di ingiustizia. Il primo a vedersela piovere addosso è stato il primo ministro al-Abadi. Lui ci è cresciuto in questo quartiere misto, a maggioranza sciita, con una piccola presenza cristiana e qualche moschea sunnita, alle porte della Zona Verde.

Domenica la rabbia gli è piovuta addosso sotto forma di pietre. La gente ha preso a sassate il suo convoglio e in tanti hanno marciato verso la sua abitazione. Baghdad non ce la fa più: «Tutti i politici iracheni sono responsabili – gridava una donna – Se non è l’Isis, è al-Qaeda; se non solo loro è la corruzione dei politici. Noi moriamo mentre loro siedono al sicuro nei loro palazzi. Sono loro che permettono all’Isis di arrivare qui e ammazzarci».

Il premier ha annunciato tre giorni di lutto nazionale, ordinato l’incremento della sorveglianza aerea e vietato l’uso di telefoni cellulari ai posti di blocco militari. Ma soprattutto ha imposto la sostituzione dei metal detector per individuare bombe ai checkpoint agli ingressi delle città irachene e non funzionanti. Che non funzionano si sa dal 2011 quando scoppiò il caso dei 6mila pezzi da 27mila dollari l’uno, noti come Ade651, venduti dall’uomo d’affari inglese James McCormick (li aveva rifilati anche alle forze Onu) che prima gli fecero incassare 40 milioni di dollari e poi lo hanno spedito in prigione in Gran Bretagna. Nonostante ciò sono ancora presenti in mano ai soldati iracheni. Una follia a cui un funzionario anonimo ha dato ieri una spiegazione altrettanto aberrante: «I nostri soldati devono pur fare qualcosa ai checkpoint».

Così, con una carneficina, l’Isis risponde a tono a chi lo dava per moribondo. Lo Stato Islamico è più presente che mai in Iraq dove prima non aveva quasi bisogno di compiere attentati nelle zone non occupate, forte delle sue roccaforti in cui detta legge e opprime la popolazione civile. In due anni gli attacchi erano stati pochi, ma dalla caduta di Sinjar, a novembre, si sono moltiplicati e con loro hanno moltiplicato le vittime.

Anche stavolta nel mirino c’è un quartiere sciita. E la scelta, ovviamente, non è casuale e non per mere ragioni confessionali (il “califfato” giudica lo sciismo una forma di eresia) ma per ragioni strategiche: lo Stato Islamico vive ampliando i settarismi interni e in questi ultimi mesi lo fa colpendo al cuore la comunità sciita. Fa passare un messaggio: il vostro nemico sono i sunniti, gli attacchi arrivano dai quartieri vicini ai vostri. Così non è: i kamikaze giungono da fuori, si infiltrano con una facilità disarmante tra le pieghe dell’incompetenza governativa. E ne fa così passare un altro: il vostro governo ha fallito.

A poco dunque servono le celebrazioni per la liberazione di Fallujah. Non bastano a salvare un governo impantanato nella corruzione, costretto venerdì a blindare piazza Tahrir e la Zona Verde per impedire l’ennesima manifestazione sciita contro la corruzione.