Da ormai oltre un decennio viviamo in un’epoca nella quale il margine si fa centro. Ma non nel senso che il margine ha «conquistato» il centro, semmai nel senso che i numeri e la percezione di marginalità sociale ed economica si è allargata al baricentro sociale dei ceti medi, facendo dell’invisibilità una condizione diffusa e maggioritaria, senza mai trasformarsi in questione sociale.

Con il covid19 questa tendenza non si è certo fermata, anzi, ha conosciuto un’«accelerazione», ambivalente termine passepartout di una nuova normalità che non intende farsi carico di spaesamento e senso di incertezza diffusi.

NEL NOVECENTO L’INVISIBILITÀ riguardava i margini lasciati fuori dalla coperta del welfare state. Con il Covid abbiamo preso definitivamente consapevolezza di come quella coperta fosse piena di buchi, nella sanità e nella scuola in primis, che non è solo questione di taglio delle prestazioni, ma anche di erosione della fiducia nelle istituzioni e nella stessa idea di cittadinanza.

D’ALTRO CANTO NON VA MEGLIO al motore ingrippato dell’inclusione e della mobilità sociale via mercato andato definitivamente in crisi dopo il 2008. Basta vedere com’è andata al lavoro autonomo di prima generazione, quello da me denominato capitalismo molecolare, a quello di seconda generazione, così denominato da Sergio Bologna, o da quello di terza generazione imperniato sui processi di economia della conoscenza a base urbana.

SONO TUTTI PERCORSI CHE, dal punto di vista dell’inclusione e della visibilità, per non parlare del protagonismo sociale, sono scivolati dentro la dicotomia polarizzante dei molti sommersi e pochi salvati a costituire un volgo disperso privo di guida riconosciuta e autorevole. Per dirla nell’orizzontalità del mio linguaggio comunità di cura, quella del welfare community, comunità operosa, quella da partite Iva anche per lavoratori della conoscenza, hanno sperimentato un lungo percorso di inabissamento, il cui il drammatico esito demografico è sotto gli occhi di tutti noi.

L’INVISIBILITÀ STA QUINDI nella dimensione orizzontale di chi è immerso nella nebbia, che rende difficile riconoscere il simile a sé, e sta nella dimensione verticale di chi dall’alto non vede altro che una coltre grigia uniforme. Questa cortina è il prodotto di un vasto processo sociale generato da una spinta verticale alla modernizzazione che fa grande fatica a tradursi in civilizzazione diffusa, determinando quel grande disallineamento tra le traiettorie accelerate del progresso tecnico-scientifico e delle relative tecnostrutture funzionali, che io colloco nella dimensione dei «flussi», e la lenta metabolizzazione politica, sociale ed antropologica radicata nei luoghi, intorno alle quali si interrogato anche un grande storico come Aldo Schiavone, nel suo breve saggio sul senso della nozione di Progresso nella nostra epoca (Schiavone 2020).

ALL’INTERNO DI QUESTA CORNICE sistemica, la connotazione «sociale» dell’invisibilità rimanda ad una dimensione critica della relazionalità umana, rispetto alla quale resta valida la categorizzazione di Roberto Esposito giocata sulla dicotomia Immunitas-Communitas. In altre parole, se l’invisibilità, a partire dalla dimensione micro, è in prevalenza il prodotto dell’incapacità di vedere o della mancanza di volontà di guardare all’altro (ed è questo a renderlo invisibile), è perché il nostro sguardo è guidato da una razionalità «immunitaria».

COSA SIGNIFICA? SIGNIFICA fondamentalmente che lo sguardo rifugge da ciò che ci «accomuna» in quanto persone, esseri umani, ai quali eravamo, in un tempo remoto, gratuitamente vincolati in un meccanismo di reciprocità, ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità grazie a pervasivi dispositivi di mediazione e di regolazione «terzi» (le norme, il diritto, la razionalità economica, i vincoli esterni) che ci immunizzano dal destino altrui e che ci permettono di coltivare le nostre microeconomie identitarie emotive, costruite sulla fantasmagoria delle distintività di status di bourduniana memoria.

TUTTO CIÒ È, A MIO MODO di vedere, ancor più evidente se pensiamo alla rete digitale che, nella mutazione post Covid19, è diventata prerequisito tecnico intorno alla quale si ristrutturano i dispositivi di visibilità e invisibilità sociale, a cominciare da quei corpi sociali che nella tradizione del secolo scorso erano deputati a «rappresentare» le passioni e gli interessi delle persone non solo dentro le mura delle imprese ma all’interno di un meccanismo ancora in gran parte di matrice comunitaria o di classe, dando voce e consistenza politica pluralistica agli invisibili del lavoro, della piccola impresa, della cooperazione, dei ceti popolari, dei ceti medi, delle comunità locali lungo la filiera istituzionale, etc. Quella microfisica dei poteri promuoveva e facilitava la visibilità sociale diffusa, ne strutturava i rapporti orizzontali e verticali, ne organizzava le istanze conflittuali producendo forme di solidarietà e senso comune.

OGGI IL GRANDE MECCANISMO immunitario e l’egemonia esercitata dalla dimensione dei flussi, al di là della difficoltà di rinnovamento interno, ha confinato quella microfisica dei poteri al ridotto della difesa corporativa, mentre ancora non si vedono all’orizzonte nuovi soggetti capaci di rappresentare i nuovi e i vecchi invisibili.

QUESTO QUADRO MI PARE UTILE anche per collocare il senso e i risultati del recente referendum costituzionale. La logica sottesa al referendum era di puro rispecchiamento e adattamento alla sfiducia diffusa e al distacco tra maggioranza invisibile e sfera della rappresentanza, ritenuta ormai inutile o parassitaria, se non addirittura quale espressione di rancore verso le istituzioni della rappresentanza in un meccanismo un po’ saturnino.

TUTTO CIÒ, IRONIA DELLA STORIA, proprio nel momento in cui lo Stato, e almeno in parte le istituzioni rappresentative, tornano ad assumere centralità nel governo del post Covid, grazie agli aiuti europei. Sarebbe utile che questa disponibilità di risorse, nella doppia cornice di sfida all’Antropocene e al Tecnocene, fosse utilizzata per ridare senso alla parola «progresso», cioè provasse a tenere assieme modernizzazione e civilizzazione, e questo anche a beneficio della salute delle istituzioni rappresentative.

QUESTI DUE ORIZZONTI DEVONO però essere colti e agiti anche da chi sta nella nebbia orizzontale, non solo da chi sorvola nel cielo limpido della chiarezza tecno-funzionale, perché senza orizzontalità partecipante e coinvolta nel processo, la verticalità dei flussi, comprese quelle di uno Stato-flusso, non trova più un terreno amico sul quale atterrare.