«A Shirley Jackson, che non aveva bisogno di urlare»: Stephen King coniò questa definizione, sintetica e perfetta, quando, nel 1980, dedicò L’incendiaria a una delle sue più venerate maestre. La voce della scrittrice californiana trasferitasi col marito ebreo in un New England che aveva scoperto razzista, bigotto e sempre pronto a linciare il capro espiatorio di turno, aveva lo stesso timbro basso e misurato delle sue protagoniste, la Constance di Abbiamo sempre vissuto nel castello o la Eleanor del famosissimo L’incubo di Hill House: ragazze ben nate e meglio educate, timide, quasi dimesse. Le sue storie e i suoi personaggi, in fondo, sono così sconvolgenti proprio perché sanno evitare ogni effetto deflagrante o anche solo troppo esplicito.

Shirley Jackson viaggia nel solco aperto da Henry James, forse il principale tra i fondatori del gotico americano, e tanto varrebbe dire semplicemente «moderno», perché l’horror moderno, in tutte le sue sfaccettature, è tanto americano quanto la Coca Cola o la frontiera. Come Henry James, Jackson non mira mai a terrorizzare o a stupire, sempre e solo a perturbare. Il perturbante non esplode: si insinua. Non declama ma allude, suggerisce, glissa sulle spiegazioni per dare spazio all’intuizione e all’immaginazione. Non offre risposte che ricomporrebbero nell’armonia di una narrazione piana l’ordine turbato: lascia in sospeso, affidando al lettore il compito di districarsi nel labirinto di ombre nascosto dietro il velo di una realtà solare. Nel caso di Shirley Jackson, la realtà delle piccole città del New England e delle comunità che le popolano.

Dopo aver offerto in nuove traduzioni i romanzi più famosi e i racconti, tra i quali il capolavoro riconosciuto The Lottery, Adelphi pubblica ora, per la prima volta in Italia, uno dei romanzi meno conosciuti e più complessi della scrittrice californiana, The Bird’s Nest, uscito nel 1954, ribattezzato qui Lizzie (traduzione di Laura Noulian, pp. 318, euro 20.00). Non è una storia gotica, e tanto meno «horror». È l’esplorazione di un caso estremo di follia, il ritratto magistrale di una ragazza «quadrofenica», nella quale convivono, si combattono e si alternano quattro personalità, diverse e scisse. Elizabeth Richmond, ventitre anni, ereditiera e orfana, domiciliata presso una bizzarra zia, è il tipo più scialbo e anonimo che si possa incrociare per la strada. Una impiegatuccia che può lavorare per anni nello stesso posto (in questo caso il museo di una piccola città), ma se scompare da un momento all’altro nessuno ricorda che sia mai esistita.

Dietro o sotto di lei, nascosta nel pozzo scuro della mente della protagonista, c’è Beth, molto più spigliata e socievole, ma anche lei fragile e insicura, perennemente alla ricerca di affetto però pronta a scoraggiarsi e disperarsi al primo battito sbagliato di ciglia. Poi Betsy, la più vitale di tutte, che sembra cattiva ma è solo dispettosa ed è anche generosa e dotata, unica fra tutte le personalità scisse di miss Elizabeth, di coraggio e voglia di vivere. Infine Bess, avida, avara e volgare, la più egoista e sgradevole di tutte queste «sorelle».

Elizabeth è sola, senza amici e senza rapporti. L’unica presenza che incrocia la sua poverissima esistenza è la ruvida e brutta zia Morgen, che a Elizabeth fa da mamma da prima che la sua bellissima e licenziosa sorella, la vera madre della protagonista, morisse in circostanze poco chiare. A lei si aggiunge il dottor Wrigth, il medico che grazie all’ipnosi fa emergere una dopo l’altra le diverse donne che convivono in una unica mente. I protagonisti del romanzo sono dunque solo tre, però valgono per sette e la maestria di Shirley Jackson nel costruire la trama intorno ai rapporti e ai conflitti sempre più feroci tra le diverse Elizabeth basterebbe da sola a qualificarla come una delle grandi scrittrici del Novecento americano.

È lecito supporre che l’autrice, allora trentottenne, abbia modellato Elizabeth, Beth, Betsy e Bess prestando loro i tratti della sua stessa complessa personalità da ragazza. Ma è ancora più probabile che volesse squadernare le diverse possibilità di identificazione offerte a una giovane donna dagli Stati Uniti dei primi anni cinquanta, segnati dal forzato ritorno delle donne fra le mura domestiche dopo la ventata di libertà e autonomia consentita negli anni quaranta dalla guerra. Quando «scopre» Beth, il dottor Wright se ne innamora a prima vista, conquistato dalla dolcezza e dalla sostanziale remissività di una figura che combacia alla perfezione con il tipo ideale di donna secondo i criteri maschili dei Fifties. Ma quando arriva Betsy, il buon medico ne è terrorizzato e la descrive come un demone orribile. Ci vuole un po’ perché il lettore scopra da solo, senza interferenze dirette da parte dell’autrice, che l’essere infernale è solo una ragazza più vitale, libera e assertiva di quanto potessero ammettere i «giusti» dell’epoca. Non a caso Betsy è la sola a chiamare il medico non Wright, che si legge come right, giusto, ma Wrong, ossia sbagliato.

Betsy è anche l’unica a non aver mai accettato la tragedia all’origine della frantumazione della personalità della protagonista, e dunque anche della sua «esistenza»: la morte della madre avvenuta quattro anni prima. Continua a pensare di avere diciannove anni, si spinge fino a New York convinta che la madre (anche lei una Elizabeth, almeno di nome) si nasconda lì. A modo suo è tanto sprovveduta quanto la tremebonda Elizabeth, la deprivata Beth o l’inaridita Bess. Nessuna delle identità della protagonista, così come nessuna delle identificazioni possibili per la generazione di americane degli anni cinquanta, può sperare di vivere e non solo di sopravvivere senza ricongiungersi e fondersi con le altre. Elizabeth ce la fa. Guarisce, diventa letteralmente una «donna nuova».

In apparenza Lizzie è un romanzo a lietissimo fine. Non solo le quattro identità della ragazza si ricompongono, ma il medico e la zia diventano amici intimi, formando così una specie di lindo quadro familiare, quel che a Lizzie era sempre mancato. Ma anche questa conclusione, così poco congrua con lo stile di Shirley Jackson, va presa con le molle: uno degli artifici adoperati dalla maestra del non detto e dell’implicito, è che mentre illustra una realtà ne suggerisce allo stesso tempo un’interpretazione opposta. Tra i componenti di questa realtà rasserenata c’è pur sempre una vecchia signora, anche lei a modo suo scissa in personalità contraddittorie, che aveva odiato la sorella, sognato di rubarle il marito e appropriarsi della figlia, una megera che esulta senza ipocrisie per esserci infine riuscita. C’è un medico bigotto e permaloso che reagisce a ogni manifestazione di libertà femminile come se fosse alle prese con Satana in persona. E c’è il cadavere di una donna che solo Betsy piange mentre tutti concordano nel ritenere la sua morte la giusta ricompensa per una vita sessualmente licenziosa e per l’aver troppe volte anteposto gli amanti alla prole.

Rispetto ai temi portanti dell’opera di Shirley Jackson, Lizzie parla d’altro solo in superficie. Nel celebre racconto che nel ’48 la aveva resa famosa, The Lottery, e poi di nuovo nell’ultimo romanzo pubblicato prima di morire per infarto a quarantotto anni, We Have Always Lived in a Castle, del ’62, la scrittrice aveva svelato impietosamente il lato oscuro delle comunità americane, le spinte cannibali che animano le folle anonime dei loro cittadini. Qui dice da chi quelle folle siano composte e da quali abissi dell’anima quelle pulsioni feroci abbiano origine.