Alla fine della Seconda guerra mondiale trenta milioni di persone lasciano le loro terre d’origine come conseguenza della riscrittura dei confini nazionali in Europa, basti pensare ai dieci milioni di tedeschi costretti da un giorno all’altro ad abbandonare le loro case; tra i tanti, almeno 250.000 lasciano l’Istria e la Dalmazia. Non è una fuga improvvisa ma un esodo che comincia nel 1941, per sfuggire alla guerra e ai bombardamenti alleati (Zara è semidistrutta) e dura fino ai primi anni ’60 toccando tante diverse destinazioni, dall’Italia ai Paesi d’oltreoceano. La stragrande maggioranza degli esuli è di origine italiana, autoctoni o immigrati nei decenni di appartenenza all’Italia di quelle zone magari per sostituire insegnanti e funzionari nell’idea di “italianizzarle”, ma decine di migliaia sono slavi. Non tutti se ne vanno: ancora oggi la presenza italiana, soprattutto in Istria, conta migliaia di residenti tanto che la Comunità italiana è riconosciuta formalmente sia in Slovenia che in Croazia con diritto anche ad una rappresentanza parlamentare.

COSA HA FATTO l’Italia per i profughi dall’Istria e dalla Dalmazia? Alla fine della guerra l’Italia è un Paese messo in ginocchio e così la Jugoslavia che, a differenza dei Paesi occidentali, non trova finanziamenti per potersi meglio rialzare e paga a lungo il proprio isolamento soprattutto dopo la definita rottura con l’Urss. Nell’immediato, l’assistenza ai profughi giuliano-dalmati viene assimilata a quella destinata ai reduci e agli invalidi di guerra ma nel 1946 viene istituito l’Ufficio per la Venezia Giulia che, alle dipendenze dirette del Ministero dell’Interno, promuove la formazione di comitati ed eroga ai profughi uno specifico sussidio in denaro e altre concessioni di carattere assistenziale, l’esenzione dalle tasse scolastiche e dai biglietti per i mezzi di trasporto e la liquidazione dei danni di guerra.

Italiani emigranti in Australia

LO STATO ITALIANO si fa promotore di una serie di provvedimenti legislativi: tra le norme più significative va ricordato il decreto del 3 settembre 1947 che, come per reduci e invalidi, prevede particolari preferenze nei concorsi pubblici, per esempio, la legge 137 del 4 marzo 1952 che prevede l’assegnazione ai profughi del 15% degli alloggi di edilizia popolare, l’obbligo da parte delle imprese appaltatrici di opere pubbliche di assumerli per il 5% della loro manodopera, e la concessione in deroga di licenze commerciali e l’iscrizione agli albi professionali per i profughi che nei Comuni di nuova residenza intendono riprendere le loro attività. Sul piano lavorativo è importante il decreto legge n. 520 del 23 dicembre 1946, rivolto agli impiegati e ai lavoratori statali per i quali il Governo italiano predispone il riassorbimento lavorativo, con le stesse mansioni, nei corrispondenti uffici in Italia. Molta documentazione riguarda i Monopoli di Stato che registrano un consistente afflusso di lavoratori dall’Istria che, ad esempio a Torino, nel 1952 rappresenteranno il 10% delle maestranze. Circa 2.000 unità, con le loro famiglie, possono trasferirsi nel 1947 negli opifici toscani così come i lavoratori istriani, soprattutto dall’Arsenale di Pola, vengono riassunti a Genova ma anche presso gli altri grossi arsenali della penisola.

IL PROBLEMA più grosso è rappresentato dalle sistemazioni abitative: per lo più si tratta di alloggi di fortuna, qualche albergo, caserme riadattate, campi di raccolta ad hoc. Per le casse dello Stato l’assistenza ai profughi diventa una partita onerosissima e sono svariati i miliardi stanziati allo scopo, spesso su anticipazione della Cassa depositi e prestiti.
In questo contesto, è di particolare interesse quanto avviene nella Venezia Giulia e a Trieste soprattutto. Nel novembre del 1946 nasce l’Ufficio per le Zone di Confine, direttamente dipendente dalla Presidenza del Consiglio, che aggiunge all’assistenza una dimensione ben più ampia.

L’UZC GARANTISCE un attento controllo del territorio per mezzo dell’erogazione di ingenti finanziamenti anche fuori bilancio ad associazioni, giornali e singoli (centinaia di milioni di lire all’anno sotto il capitolo “Propaganda italianità”) e organizza una fitta rete di confidenti e anche di gruppi paramilitari clandestini (composti per la maggior parte da ex militari, partigiani anticomunisti, uomini della X Mas e militanti neofascisti) che agiscono soprattutto per difendere l’italianità nelle aree di confine. Le strutture paramilitari clandestine operano in stretta connessione con i vertici militari ed è sempre grazie ai finanziamenti dell’ Uzc che a Trieste germogliano, sotto le mentite spoglie di innocui circoli sportivi, organizzazioni nazionaliste e neofasciste, alle quali vengono demandati speciali incarichi di polizia parallela che in diverse occasioni aizzano la folla per provocare disordini e violenze.

L’Uzc è il braccio operativo, in parte nascosto, con cui il governo italiano attua la sua politica in un territorio dove non ha potere, né giurisdizionale né tanto meno militare, cercando di manovrare con l’unico strumento veramente efficace a sua disposizione: il denaro.

Si va verso il trattato di pace e il governo italiano avverte la presenza slovena nella città come una sostanziale minaccia: l’incremento di nuove imprese e la crescita demografica slovena nel corridoio Trieste-Monfalcone, lasciano pensare che dietro ci sia un piano strategico prestabilito. Per controbilanciare ed arrestare quella che ritiene una silenziosa colonizzazione slovena, l’Italia cerca di far confluire nel territorio quanti più profughi giuliani possibile. I finanziamenti erogati dall’Uzc ai profughi, comunque, sono subordinati all’ottenimento della qualifica di «ottimi elementi italiani», qualità individuata in base a specifici parametri, tra i quali la fede politica di appartenenza.

L’UZC RACCOGLIE una quantità di dati impressionante: dal 1949 al 1952 ogni abitazione, negozio, officina, nella fascia confinaria tra Trieste e Monfalcone, porta la descrizione del proprietario e della sua appartenenza etnica e fede politica. Si pensa subito di attuare nella zona un radicamento abitativo di profughi giuliani e agevolare l’erogazione di mutui a operai “di fede italiana” che costruiscano casa vicino ai cantieri di Monfalcone. La questione abitativa viene delegata all’Opera nazionale per l’assistenza dei profughi alla quale il Comune di Trieste cede vaste aree in Carso dove costruire grandi complessi condominiali destinati agli esuli, e si attira così furiose accuse da parte delle rappresentanze e dell’associazionismo locale che paventano un imperialismo di ritorno, una artificiosa colonizzazione di un suolo compattamente sloveno.

Gli sforzi del governo per garantire ai profughi una opportuna sistemazione in Italia non raggiungono tutti, inevitabilmente, e certo non riescono a sopire le polemiche che ancora oggi ne supportano il malcontento attraverso diverse associazioni, qualcuna davvero revanscista, che possono godere di finanziamenti da parte dello Stato e degli Enti locali. Il 1954 è un nuovo anno cruciale: gli anglo-americani se ne vanno, Trieste dovrebbe restare Territorio Libero ma diventa italiana, nuovi profughi arrivano dalle ex province italiane mentre 40.000 triestini si imbarcano verso l’Australia dietro il famoso striscione «La madre ritorna, i figli se ne vanno». Ancora una volta cambia radicalmente il volto della città e del suo circondario e la presenza massiccia di profughi diventa uno degli elementi determinanti per gli assetti politici, detenendo una fetta non piccola di potere reale e sicuramente orientandone, ancora oggi, la cultura predominante.

Si può ben dire, insomma, che la strumentalizzazione dell’esodo non è nata con il Giorno del Ricordo.