E alla fine hanno avuto ragione loro: la regina è morta. È dal 1986 che gli Smiths, il gruppo formato nel 1982 da Steven Patrick Morrissey e da Johnny Marr (rispettivamente voce e chitarra, con Andy Rourke al basso e Mike Joyce alla batteria) lo cantano, tanto da averci anche intitolato un disco. E che disco! The Queen Is Dead, terzo lavoro della band di Manchester, è un capolavoro, il culmine di una carriera breve ma enorme. Una produzione seminale se solo valutiamo l’influenza esercitata su tutta una serie di band, che negli anni successivi al loro scioglimento hanno fatto parte della scena britannica. Non solo per gli aspetti prettamente musicali (peraltro magistrali), ma anche per aver introdotto e sdoganato un intero mondo di icone e messaggi letterari dentro tre minuti di musica. Con gli Smiths si sono aperti orizzonti inimmaginabili, fatti di letture (Oscar Wilde, Virginia Woolf, John Betjeman e Shelagh Delaney), culture pop (James Dean, Truman Capote), rimandi Sixties (Sandie Shaw, gli Hollies), battaglie etiche (il vegetarianismo) e lacrime solitarie a bagnare camerette silenziose. In un’intervista a Rolling Stone, Morrissey ha confessato di aver trascorso da ragazzo le sue giornate in casa, leggendo, ascoltando musica e scrivendo pagine di poesia. «Non ho mai incontrato gente, letteralmente. Potevo anche non mettere piede fuori casa per tre settimane. James Dean e Oscar Wilde erano gli unici due compagni che ho avuto nella mia adolescenza. Ogni rima scritta da Wilde mi colpiva enormemente ed ero anche affascinato dallo stile di vita di Dean».

CRISI SOCIALE
Contrariamente all’immagine melensa e uniformata che i media mainstream stanno diffondendo, The Queen Is Dead racconta che non tutti in Gran Bretagna supportano (e sopportano) la monarchia. Le parole della title-track sono sarcastiche e dissacranti nei confronti della regina Elisabetta II e di suo figlio Carlo, allora solo principe, e sono l’esempio più famoso dei testi antimonarchici scritti da Morrissey. In una presa di posizione del periodo, il cantante definì la corona inglese «del tutto contro ogni nozione di democrazia, oltre che un mistero per molte persone». Nel tempo in verità ha in parte smorzato i toni, spiegando che il termine Queen era inteso con diversi doppi sensi, anche allusivi a se stesso.
Inizialmente il titolo del disco avrebbe dovuto essere Margaret on the Guillotine, un chiaro riferimento all’allora premier britannico Margaret Thatcher e alle politiche conservatrici del suo governo. Abbandonata l’idea di quel titolo, Morrissey, si lasciò ispirare dal lavoro di Hubert Selby. The Queen Is Dead è infatti il titolo del primo racconto dell’autore americano, raccolto poi in forma di capitolo nel romanzo Ultima uscita per Brooklyn, con la tematica omosessuale del racconto ribaltata dal leader degli Smiths in critica anti establishment.
Nato in un momento di profonda crisi (sociale, con la Thatcher imperante, ma anche personale con Marr perso nella depressione e Rourke nell’eroina), The Queen Is Dead è il manifesto programmatico degli Smiths, tracciato su un sapiente alternarsi di alti e bassi, di ceffoni e carezze, di feroce dileggio e di dolci ballate. Il pop perfetto di Bigmounth Strikes Again, la dolente immensità di I Know It’s Over, le meraviglie su sei corde di The Boy with the Thorn in His Side esaltano un disco luminoso e intelligente, che riuscì a unire concessioni commerciali ad alta scrittura pop(olare). Tutto è al posto giusto, dal cromatismo della copertina (un giovane Alain Delon su sfondo verde) all’intesa sonora, alla qualità delle tracce. La regina è morta, viva la regina.