Il verdetto arriverà oggi, a un mese quasi esatto dalla decisione della commissione europea di mettere in campo una specie di arma-fine-di-mondo, la minaccia di una procedura d’infrazione per debito, mai comminata prima, ai danni dell’Italia.

A Roma l’ottimismo è generale e proclamato apertamente sia da palazzo Chigi che dal ministero dell’Economia. In realtà segnali inequivocabili e ufficiali dalla commissione non ne sono arrivati. La riunione degli sherpa economici, i capi di gabinetto, fissata per ieri sera, dalla quale si sarebbe ricavata un’indicazione inequivocabile, è stata spostata a questa mattina, prima del summit decisivo, quello del collegio dei commissari, convocato per le 12.30.

È probabile che chi si aspetta un risultato netto, bianco o nero, pollice alzato o verso, sia destinato a restare deluso. L’ottimismo che campeggia a Roma non è certo infondato. «Il clima è positivo», fa filtrare con una certa prudenza palazzo Chigi. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria si allarga di più: «I dati sono buoni e ci aspettiamo un buon riscontro». I dati sono quei 7,6 miliardi ufficiali, in realtà quasi 9, che l’Italia ha messo sul piatto della bilancia portando i dati del 2018 e del 2019 al livello concordato. Ma i dati sono anche uno spread in picchiata, sceso ieri sotto i 220 punti, e un focus Istat sull’occupazione positivo. Aprire la procedura ora suonerebbe come posizione dettata da pregiudizio politico, e questo la commissione vuole evitarlo a ogni costo. Inoltre resistere a pressioni certo non trascurabili, come quelle della Bce contraria a rischiare un terremoto in questo momento, non è affatto facile a fronte di un deficit 2019 attestatosi intorno a quel 2,04% messo nero su bianco nel dicembre scorso.

E tuttavia la commissione europea non è affatto contenta e almeno la sua ala più intransigente legge i dati italiani più col cipiglio che con il sorriso. Perché la lettera spedita da Bruxelles il 5 giugno diceva molto chiaramente che l’Italia avrebbe dovuto assumere impegni chiari e vincolanti anche sul 2020, e quella richiesta, la sola realmente importante, è rimasta inevasa. Poi perché la commissione avrebbe preferito che la messa a punto dei conti passasse per una vera manovra correttiva, tale da prospettare una svolta nell’indirizzo economico del governo italiano. La strada scelta da Giovanni Tria, quella di ramazzare miliardi ovunque abbondando in fondi reperibili solo una tantum e per nulla strutturali non è diversa ma opposta.

È poco probabile che questi malumori, del tutto condivisi da alcuni governi primo fra tutti quello olandese, riescano a rovesciare i pronostici che danno l’Italia per salva, almeno per il momento. È però probabile che abbiano successo nel condizionare la formula con la quale la commissione eviterà, salvo sorprese, di chiedere al Consiglio di pronunciarsi sulla procedura il 9 luglio. Di certo, i falchi europei tenteranno di evitare un esito come quello dello scorso dicembre, una chiusura di partita sia pur momentanea, per puntare invece su una sorta di sospensione in attesa del vero showdown, quello sui conti del 2020 e dunque sulla prossima legge di bilancio. A quel punto ognuno potrà decidere se guardare il bicchiere mezzo pieno, come farà certamente il governo, o mezzo vuoto.

I partiti della maggioranza, comunque, tireranno in ogni caso un sospiro di sollievo. L’urgenza era infatti prima di tutto evitare di entrare subito in una spirale dalla quale sarebbe poi stato difficilissimo uscire. Una volta evitato l’avvio immediato della procedura, il governo è convinto di riuscire a mettere in campo, eliminando gli 80 euro di Renzi e modificando le norme su detrazioni e deduzioni, coperture sufficienti per varare almeno una parte della Flat Tax.

Su come evitare l’aumento dell’Iva senza tagliare la spesa sociale e sulla necessità di lasciare a bocca asciutta il Movimento 5 Stelle, invece, la strada è tutta in salita. Si tratterà di trovare una quarantina di miliardi, e con i fucili di Bruxelles ancora puntati.