Un momento storico. Uno spartiacque nella guerra. L’incontro sull’Afghanistan che si è tenuto ieri a Mosca è stato salutato con toni enfatici. Eccessivi. Fortemente voluto dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, ha avuto l’innegabile merito di far sedere attorno allo stesso tavolo persone che fino a oggi avevano evitato di incontrarsi: oltre ai rappresentanti di 12 governi tra cui Russia, Cina, India, Iran, Pakistan, a quel tavolo c’erano infatti 5 esponenti dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha, in Qatar, incluso il responsabile Mohammad Abbas Stanekzai.

È LA PRIMA VOLTA che si presentano in modo ufficiale, in una discussione pubblica, avallati da una decisione della Rahbari Shura, la cupola che rappresenta la leadership politica. Straordinario il fatto che a quel tavolo sedesse anche Kabul, anche se «di sghembo». Come nel caso degli Usa (un semplice osservatore), si tratta di una presenza non ufficiale: non c’erano diplomatici, ma membri dell’Alto consiglio di pace, l’organismo – a nomina governativa ma per statuto indipendente – che ha il compito di intavolare il negoziato con i Talebani.

I COMMENTATORI non hanno mancato di rilevare un evidente paradosso storico. Oggi la Russia prova a favorire il negoziato, fa da mediatrice, ieri (dal 1979 al 1989) occupava militarmente il paese. I russi – secondo Habiba Sarabi, l’unica donna a partecipare ai colloqui – «hanno esperienza della guerra. E se riescono ad avere esperienza anche della pace, accoglieremo il loro contributo». Il primo attore a incassare i dividendi politici è proprio Mosca, che si è mossa con intelligenza. Ha prima aspettato che gli Usa perdessero la faccia sul campo di battaglia, poi ha colmato parte del vuoto lasciato dal disimpegno diplomatico statunitense nel periodo tra la fine del mandato di Obama e l’inizio di quello di Donald Trump. Infine ha consolidato i rapporti – diplomatici, qualcuno sostiene anche finanziari e militari – con alcune fazioni dei Talebani in funzione anti-americana, certo, ma soprattutto per arginare l’avanzata della «provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico.

«I NOSTRI PAESI stanno affrontando un’insorgenza internazionale e uno dei loro obiettivi è l’Afghanistan. Lo Stato islamico è l’avanguardia di questi gruppi e sta cercando di trasformare l’Afghanistan nella propria base per espandersi poi in Asia centrale e oltre. L’obiettivo di tutti questi paesi è di sostenere l’Afghanistan per sradicare questo pericolo». Così il ministro Lavrov nell’introdurre l’incontro. Da tempo ormai i russi considerano i Talebani come interlocutori a tutti gli effetti. Di più, alleati. Il loro jihad, circoscritto alla cornice dell’Afghanistan e volto a liberare il Paese dall’occupazione, è considerato del tutto diverso dal jihad globale, settario, sanguinario e alieno al compromesso dello Stato islamico. Un argine contro i tagliagole. I Talebani sono l’altro attore che politicamente incassa di più dall’incontro di Mosca.

I cinque rappresentanti barbuti davanti a sé avevano una targhetta con su scritto «movimento talebano». Nessun nome, nessun cognome. Una scelta che enfatizza l’unità del gruppo (nascondendo i dissidi interni). Per ora possono ritenersi più che soddisfatti. Un tempo considerati dei pariah, hanno a lungo scontato la diffidenza dell’intera comunità internazionale e resistito all’offensiva militare della Nato, e oggi sono attori politici riconosciuti a tutti gli effetti. Una parabola inversa a quella dei russi: da vinti a vincitori, o quasi. Impossibile negare che i Talebani oggi si vedano riconosciuta quella patente di legittimità politica a lungo cercata.

CHE LA MERITINO O MENO, è un altro discorso. E comunque la patente non basta per mettere fine al sanguinoso conflitto. «Nessun negoziato, abbiamo solo parlato del ritiro delle truppe straniere», dicono i barbuti. «Il vero negoziato sarà tra Kabul e i Talebani», insistono da Kabul.

E a Washington guardano con sospetto il protagonismo di Mosca. Nel frattempo, le vittime crescono: per uno studio della Brown University, tra civili e militari sarebbero tra 480,000 e 507,000 le vittime delle guerre Usa in Iraq, Afghanistan e Pakistan dopo l’11 settembre. Centocinquantamila solo in Afghanistan.