Sei studenti delle superiori definiti problematici. Un professore di origini bosniache appena incaricato di tenere un corso pomeridiano per far recuperare ore di scuola a un gruppo con il quale non è affatto semplice mettersi in relazione e darsi degli obiettivi. Un quartiere periferico, detto Libertà, con un’elevata conflittualità tra vecchi residenti, rabbiosi e in cerca di un nemico per risolvere i propri guai, e abitanti provenienti da altre parti del pianeta che chiedono semplicemente di essere rispettati in quanto esseri viventi. E sullo sfondo Bari, quasi invisibile, una città non-luogo senza più idee, con compiti burocratici da assolvere, che ha rinunciato a immaginare la costruzione di un mondo diverso da quello arido dei cantieri del superbonus.

TRATTO dalla pièce teatrale, La classe di Vincenzo Manna, La prima regola di Massimiliano D’Epiro è un film nel quale l’abbondanza di vicende personali, di situazioni dolorose, di orrori, produce un doppio effetto. Da un lato, non si può fare a meno di prendere tutto tremendamente sul serio. Il razzismo, il sessismo, l’incapacità di trovare una via diversa dalla violenza, gli atti ritorsivi che sovrastano qualsiasi forma di riflessione, lo stare sempre a distanza ravvicinata, senza mai concedere spazio (anche se la prima regola al quale si fa riferimento è quella di non toccarsi), sono forme perfettamente riconoscibili del nostro quotidiano. I protagonisti con le loro storie di fallimenti, abusi, ingiustizie, sono eletti a rappresentanti di un’epoca che andrebbe letteralmente cancellata per farne sorgere un’altra.

D’EPIRO SOMMA disgrazia a disgrazia, incidente a incidente, in modo eccessivo, come se per mostrare una caduta si sentisse costretto a metterne in scena una ancor più rovinosa. Ogni volta che uno dei personaggi pensa di aver trovato un pertugio dove infilarsi per evadere da un carcere, è immediatamente respinto, ricacciato indietro, trascinato a terra, riportato alla condizione di nudo corpo.
Forse avrebbe giovato sottrarre, non amplificare ogni singolo atto, affidarsi a momenti nei quali non accade nulla, perché è già esemplare quello che esiste. Una sospensione che nel film vediamo quando il preside (la figura più riuscita, proprio perché sfuggente e meno sopra le righe) alle urla di uno dei suoi studenti, si limita a una carezza, un gesto comunque lacerante di resa e, forse, di effimera comprensione.