Come nel romanzo di Orwell, il Grande Fratello politico-mediatico riscrive in continuazione la storia, cancellandone pagine essenziali per comprendere gli eventi attuali ircheni. Importante, quindi, è ricostruirle nei termini essenziali.

L’Iraq di Saddam Hussein e gli Usa

L’Iraq di Saddam Hussein, che invadendo il Kuwait il 2 agosto 1990 dà modo agli Stati uniti di mettere in pratica la strategia del dopo guerra fredda, è lo stesso Iraq fino a poco prima sostenuto dagli Stati uniti. Dal 1980, essi lo hanno aiutato nella guerra contro l’Iran di Khomeini, allora «nemico numero uno». Il Pentagono ha fornito al comando iracheno anche foto satellitari dello schieramento iraniano. E, su istruzione di Washington, il Kuwait ha concesso a Baghdad grossi prestiti.

Ma, una volta terminata la guerra nel 1988, Washington teme che l’Iraq, grazie anche all’assistenza sovietica, acquisti un ruolo dominante nella regione. Cambia di conseguenza l’atteggiamento del Kuwait, che esige da Baghdad l’immediato rimborso del debito e aumenta l’estrazione di petrolio dal giacimento di Rumaila esteso sotto ambedue i territori. Danneggia così l’Iraq, uscito da otto anni di guerra con un debito estero di oltre 70 miliardi di dollari. A questo punto Saddam Hussein pensa di uscire dall’impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano che, in base ai confini tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy Cox, sbarra l’accesso dell’Iraq al Golfo.
Gli Stati uniti, che conoscono nei dettagli il piano, lasciano credere a Baghdad di voler restare fuori dal contenzioso.

Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti militari mostrano che l’invasione è ormai imminente, l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glasbie, assicura Saddam Hussein che gli Stati uniti non hanno alcuna opinione sulla sua disputa col Kuwait e vogliono le migliori relazioni con l’Iraq. Una settimana dopo, il 1° agosto, Saddam Hussein ordina l’invasione, commettendo un colossale errore di calcolo politico.

Gli Stati uniti bollano l’ex alleato come nemico numero uno e, formata una coalizione internazionale, inviano nel Golfo una forza di 750mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi, agli ordini del generale Norman Schwarzkopf. Il 17 gennaio 1991 inizia l’operazione «Tempesta del deserto». In 43 giorni, in quella definita «la più intensa campagna di bombardamento della storia», l’aviazione Usa e alleata (tra cui quella italiana) effettua con 2800 aerei oltre 110mila sortite, sganciando 250mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano oltre 10 milioni di submunizioni.

Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre 500mila soldati, lanciano l’offensiva terrestre che, dopo cento ore di carneficina, termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato da Bush. Nessuno sa con esattezza quanti siano i morti iracheni: secondo una stima circa 300mila, tra militari e civili, di sicuro molti di più. In migliaia vengono sepolti vivi nelle trincee con carri armati, trasformati in bulldozer.

La strage di milioni di bambini

Nella prima guerra, Washington decide di non occupare l’Iraq, per non allarmare Mosca nella fase critica dello scioglimento dell’Urss e per non favorire l’Iran di Khomeini. Per questo a Washington scelgono di fare un passo alla volta, prima colpendo l’Iraq, poi isolandolo con l’embargo Nei dieci anni successivi, a causa dell’embargo, muoiono circa mezzo milione di bambini iracheni, più altrettanti adulti, uccisi dalla denutrizione cronica, dalla carenza di acqua potabile, dagli effetti dell’uranio impoverito, dalla mancanza di medicinali.

Questa strategia, iniziata dal repubblicano Bush (1989 –1993), viene proseguita dal democratico Clinton (1993 –2001). Mutano però, negli anni Novanta, alcune condizioni. L’obiettivo dell’occupazione dell’Iraq, in una posizione geostrategica chiave nella regione mediorientale, è ritenuto ora fattibile. Il Project for the New American Century, un gruppo di pressione nato per «promuovere la leadership globale americana», nel gennaio 1998 chiede al presidente Clinton di «intraprendere una azione militare per rimuovere Saddam Hussein dal potere». In un successivo documento, nel settembre 2000, precisa che, «l’esigenza di mantenere nel Golfo una consistente forza militare americana trascende la questione del regime di Saddam Hussein», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza» in cui gli Stati uniti devono avere «un ruolo permanente».

La nuova strategia, di cui George W. Bush (figlio del presidente autore della prima guerra) diviene esecutore, viene decisa dunque prima che egli sia insediato alla presidenza nel gennaio 2001. Essa riceve un impulso decisivo con gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington (sulla cui versione ufficiale, ci sono fondati e diffusi dubbi). Nel febbraio 2003, il segretario di stato Colin Powell presenta al Consiglio di sicurezza Onu le «prove» – fornite dalla Cia e rivelatesi poi false per ammissione dello stesso Powell – che il regime di Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa e sostiene Al Qaeda. Poiché il Consiglio di sicurezza si rifiuta di autorizzare la guerra, gli Usa lo scavalcano. Il 19 marzo, inizia la guerra. Il 1° maggio, a bordo della portaerei Lincoln, il presidente Bush annuncia «la liberazione dell’Iraq», sottolineando che in tal modo gli Stati uniti «hanno rimosso un alleato di Al Qaeda».