La tesi di fondo che spinge Matteo Renzi a giustificare la surreale crociata contro l’articolo 18 è che maggiore flessibilità nell’offerta di lavoro porterà più occupazione in Italia. La tesi è stata smentita sin dal 2004 dai rapporti Ocse sull’occupazione e ha trovato una serie di conferme nell’elaborazione dei dati forniti dall’Isfol, oltre che nei lavori di economisti come, tra gli altri, Emiliano Brancaccio o Riccardo Realfonzo.

Il problema è anche un altro: una maggiore precarizzazione del mercato del lavoro (e quello italiano lo è alla massima potenza) produce occupazioni (Jobs) «mordi e fuggi», di bassa qualità,di breve e brevissima durata e sempre meno pagati. Il disegno di Renzi (su impulso della Bce o dell’Ocse) sembra essere il seguente. In Italia oggi sette persone su 10 (1.848.147 unità) lavorano a tempo determinato. Per loro non vale l’articolo 18. Alla scadenza di questi contratti nessuno viene «licenziato». Il contratto non viene semplicemente «rinnovato». I dati sono del sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie del ministero del lavoro e riguardano il secondo trimestre di quest’anno. Solo il 15,2%, cioè 403 mila persone, sono state assunte nel 2014 con un contratto a tempo indeterminato. Con la sua «riforma» Renzi vuole togliere il contratto «vero» a queste persone e renderle uguali – e senza diritti – al 70% che non ha le stesse garanzie. Dice che, in compenso, le vincolerà cioè al famigerato «contratto a tutele crescenti».

Qui emerge un altro problema: solo maturando l’anzianità queste persone matureranno diritti. Quelli di ricevere un indennizzo nel caso di un licenziamento. Il risultato paradossale sarà quello di istituire una vera e propria «apartheid generazionale» che vincola il reddito e i diritti all’anzianità di servizio. Più sei vecchio, più hai diritti. E sarai sempre a rischio di «non rinnovo» (cioè di licenziamento).

L’inganno è formidabile. Oggi si vuole abolire l’articolo 18 per cancellare l’«apartheid» tra garantiti e non garantiti (espressione discutibile resa nota da Pietro Ichino). Con la delega e l’abolizione dell’articolo 18 questo presunto regime verrà generalizzato a tutti: «assunti» e «precari». In maniera uniforme. E senza pietà.

L’aumento della precarietà nella speranza di ottenere la crescita è stata la battaglia ideologica anche della riforma Fornero. I dati Isfol dimostrano che due anni dopo la sua approvazione sono aumentati i contratti a tempo determinato, mentre l’incidenza delle assunzioni di breve e brevissima durata (anche per un giorno) è esplosa: il 67,3%. Questo dimostra che le imprese non sono affatto interessate a mantenere il lavoratore, ma ad usarlo in base alla domanda a cui devono far fronte. Inutile aggiungere che, in mancanza di una domanda forte, questo sarà il destino di chi avrà in sorte il «contratto a tutele crescenti». Non sarà «rinnovato», sempre che non gli preferiscano il ben più conveniente «contratto Poletti» senza «causale». Una misura appena approvata, ma che entrarà inevitabilmente in contrasto con il nuovo contratto.

Questa guerra contro la vita messa al lavoro (servile) è caratterizzata da un altro falso ideologico. Il mercato italiano del lavoro è uno dei più flessibili d’Europa, mentre quello tedesco è uno dei più rigidi. Nel paese della Merkel vige davvero una separazione tra i garantiti e gli schiavi dei «mini-jobs». Ma gli italiani illuminati sulla strada di Berlino se lo sono dimenticato. Oppure, cosa ancora più grave, non lo sanno. Emiliano Brancaccio ha definito questa strategia «precarietà espansiva», mentre Riccardo Realfonzo ha dimostrato la falsificazione dei dati Ocse.

L’Italia è stata infatti uno dei paesi più impegnati a ridurre la protezione dell’occupazione. Le tutele sono crollate di oltre il 40% dal valore 3,82 dell’indice Epl (Employement Protection Legislation Index) nel 1990 al 2,26 del 2013. Le politiche di precarizzazione del lavoro non hanno avuto alcun successo negli ultimi 25 anni. Dalla metà degli anni Novanta il nostro paese ha superato ogni record di precariato in Europa. Secondo l’Isfol è stato del 122% contro il 62% della Spagna e del 48% di Francia e Germania. Di tutto questo Renzi tace. O non sa. Sperando che nessuno sappia.