È un luogo comune sottolineare con stupore il contrasto tra la caduta degli interessi per l’opera di Antonio Gramsci in Italia(anche se fa eccezione un vero boom di pubblicazioni sulle vicende carcerarie) e il fiorire degli studi nel mondo. Si finge così di dimenticare, con un po’ di filisteismo, che c’è di mezzo la sconfitta subita dallo schieramento politico che nella sua opera si era riconosciuto. Gramsci potrà tornare ad essere parte della cultura italiana solo se riuscirà ad essere nuovamente intrecciato con una lettura del presente.

Sta qui l’interesse del seminario organizzato recentemente a Lecce da un gruppo di giovanissimi studiosi pugliesi, organizzati da Enrico Consoli e Alfredo Ferrara, su «Gramsci, i partiti e la crisi della democrazia» , con la presenza di Guido Liguori in rappresentanza della International Gramsci Society. Mettendo da parte una lettura un po’ circolare e ripetitiva tutta interna ai Quaderni, i pezzi costitutivi della teoria politica gramsciana sono stati messi direttamene a confronto con gli scenari della nostra vita quotidiana: da facebook e la rete (relazioni di Marco Zanantoni e Riccardo Cavallo) all’antipolitica, dai populismi (analizzati da Giuseppe Montalbano) alla nuove tendenze autoritarie che avanzano con la crisi della costituzione, alla domanda canonica (di cui si è fatto carico Alfredo Ferrara): quale nuovo blocco storico?

In nome della nazione

Vero è che i giovani pugliesi non sono soli in questa ricerca. Ci si è misurato di recente anche il presidente della Fondazione Gramsci e della Edizione Nazionale dell’Opera di Gramsci, Giuseppe Vacca, in una intervista alla nuova Unità di Renzi del 21 agosto: «Gli elettori del Pd si riconoscono nelle riforme del governo». Vacca come Verdini è un fervente sostenitore del partito della nazione, ma rispetto al parlamentare ex berlusconiano il presidente della Edizione Nazionale ha una marcia in più: si è piegato a lungo sugli scritti di Gramsci. Se Verdini porta i voti, Vacca porta la teoria del moderno principe. Il partito della nazione «risponde a un concetto forte di partito emancipato dalle povere riduzioni sociologiche più o meno inconsapevolmente introiettate, in seguito all’egemonia culturale economicista impostasi nel dibattito sulla crisi della democrazia… Cos’è un partito politico se non un punto di vista sulla storia e il destino di una nazione?»

Qui la teoria di Gramsci entra in presa diretta con la politica fino a diventare propaganda. Con un rispetto maggiore della filologia i giovani pugliesi si sono avvalsi delle sollecitazioni del presente per rimettere in evidenza un dato ermeneutico a mio avviso estremamente importante, ossia che tutta la teoria politica gramsciana è centrata sulla lettura dei processi involutivi che dopo la prima guerra mondiale colpiscono le democrazie liberali, in modo più precoce in Italia, e poi con vari gradi di intensità nel resto d’Europa.

Si è osservato che nei Quaderni del carcere non c’è una descrizione del regime fascista, analoga a quella contenuta nelle Lezioni di Palmiro Togliatti del 1935. Ma non è colpa della censura. La ricerca di Gramsci è orientata da un diverso interrogativo forse così riassumibile: per quali vie si estingue la rappresentazione politica del conflitto sociale? In effetti la crisi della democrazia passa tutta, per Gramsci, attraverso l’entropia del politico. Qui sta la sua rinnovata attualità. La rottura tra rappresentanti e rappresentati, con cui si apre sempre una crisi organica, lascia spazio ai poteri che si sottraggono, egli dice, al controllo dell’opinione pubblica.

Sul filo di una geniale attualizzazione del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx, Gramsci vede assai precocemente( già nell’autunno del 1920 con la crisi fiumana) la possibilità del colpo di stato inteso non nella sua tradizionale teatralità ma come processo di sostituzione dello Stato/burocrazia allo Stato/ sistema politico. Nel carcere la tensione tra il burocratico e il politico diventa anche il filo conduttore della analisi della esperienza sovietica, in questo senso tutta segnata dalla involuzione statolatrica.

Legittimità perdute

Nel convegno di Lecce l’attualità delle analisi sul cesarismo, che può avanzare dice Gramsci anche senza solenni forme cesaree, e anche nella permanenza di istituti parlamentari, è stata finemente proposta da Francesca Antonini. Gaetano Bucci si è invece avvalso di categorie gramsciane per descrivere come, sempre nella logica della entropia del politico, la crisi della democrazia si sviluppi oggi in Europa parallelamente al consolidamento del potere sovranazionale rappresentato dalla moneta unica. La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di «tecnologie» e «dispositivi» di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi.

Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre più sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità. Insomma, il presidente della Edizione Nazionale dovrebbe spiegare come il presunto nuovo principe di Renzi possa convivere con la piena sottomissione alla «dittatura fiscale» della Bce, che non è in alcun modo interessata a «regnare», ma vuole invece sorvegliare e punire, avvalendosi di quella che Jens Weidmann presidente della Bundesbank con linguaggio inconsapevolmente foucaultiano chiama la «disciplina del mercati». Per altro verso i movimenti populisti ripropongono l’entropia del politico a partire della sua rinascita caricaturale nella forma di un carisma sempre più inventato e di carta pesta.
Non ho più spazio a disposizione. Concludo accennando a un tema strategico degno a mio avviso di riflessione: la grande superiorità teorica che nella raffigurazione del moderno il politico ribelle Antonio Gramsci ha nei confronti del professor Max Weber (la Sardegna versus Heidelberg), sta nella capacità di sostituire il «disincanto» con la ricerca costante dei contro movimenti, muovendo dall’assunto di natura ontologica che la vita, la prassi, finirà sempre per scompaginare i piani predisposti dalle tecnologie e dai dispositivi.