La potenza del suono inchioda gli spettatori, l’urgenza espressiva li travolge, i soli trasudano lirismo e vertigini free, il ritmo è sempre spiazzante. Non è un’allucinazione sonora ma una pallida descrizione della musica dei Broken Shadows, superquartetto newyorkese in Italia per un breve tour (1° febbraio Ferrara, 2 Roma, 3 Bolzano). Nella capitolina Casa del Jazz, nonostante la serata domenicale, Tim Berne, Chris Speed, Reid Anderson e Dave King hanno fatto il “tutto esaurito” e non capita spesso per un jazz che si potrebbe definire di iperavanguardia. Termine forse passabile perché indica i suoi protagonisti come ricercatori sonori in prima persona, qui impegnati nel ridar vita a significativi frammenti del repertorio di Ornette Coleman, Charlie Haden, Julius Hemphill e Dewey Redman; la formazione – con doppia ancia e sezione ritmica – è nata in un ristorante (Korzo) nel South Sope Brooklyn di New York ed ha avuto spazio persino al Village Vanguard (il quartetto incide per la Newvelle Records).

INFORMALI nel vestire, ermetici nel rapporto con il pubblico, i Broken Shadows (titolo di una composizione di Coleman, incisa nel 1969) puntano tutto, e immersivamente, sulla musica. I temi vengono esposti ora in unisoni folgoranti ora in contrappunti che vedono nell’alto di Berne la prima voce e nel tenore di Speed la seconda; contrabbasso e batteria sono quelli dei Bad Plus, garanzia di una scansione ricca di drive quanto imprevedibile e spiazzante, sempre pronta a destrutturare il ritmo senza perdere in energia e slancio. Intensamente collettiva, spesso polifonica, la musica dei Broken Shadows dimostra come si possa metabolizzare la lezione del free e riproporla con la stessa urgenza di cinquant’anni fa, con il sudore e la tensione sul palco e la partecipazione non rituale del pubblico. I brani colemaniani (tra cui Toy Dance e Broken Shadows) sfavillano per intensità, velocità e lirismo; altre pagine sono più distese come Dogon A.D. di Julius Hemphill (maestro di Tim Berne) dalla scrittura a tratti epica, pensosa. Struggente e cantabile è la Song for Che di Charlie Haden (la suonava con la Liberation Music Orchestra) ma la bellezza del quartetto è nel saper ricreare il sound del free in modo originale, arrangiando le due ance e lavorando su un interplay assolutamente paritario, con il drumming di Dave King sempre in primo piano. Il bis è un Lonely Woman confinato al tema, in cui non c’è improvvisazione come per un sincero rispetto ai Maestri di una musica rivoluzionaria, autentica e irriverente.