Il governo interviene per salvare la Banca Popolare di Bari, correntisti e piccoli azionisti protestano, e gli analisti si concentrano, anche questa volta, sulle responsabilità del management e su quelle degli organismi di controllo. Ci sta, ma così non si comprende il perché periodicamente siamo costretti ad esistere a queste passioni laiche, nelle quali sono coinvolte migliaia di persone, lavoratori e risparmiatori, e l’economia di un intero territorio.

Come per altri istituti di credito, anche in questo caso il mostro si annida in un acronimo: Npl, che sta per «non performing loans», soldi prestati a cittadini ed imprese che difficilmente torneranno indietro. Ma indietro da cosa? Ancora oggi, molti cittadini in buona fede pensano che una banca dia in prestito i soldi che ha raccolto attraverso i depositi dei risparmiatori. Pensiero ingenuo ma razionale, considerata l’importanza che tutt’ora si dà alla materialità del denaro, come se si trattasse di un bene fisico, tangibile, reale.

Purtroppo le cose non stanno esattamente così. Se si escludono le banconote e gli spiccioli che portiamo nei nostri portafogli (solo il 3% del totale), tutto il resto è denaro generato in maniera «endogena» dal sistema bancario attraverso il credito. Le banche prestano soldi che non hanno. Ci sono Paesi nel mondo, come il Regno Unito, il Canada e l’Australia, dove non c’è nemmeno l’obbligo delle cosiddette «riserve obbligatorie».

In Europa, con i provvedimenti di Basilea III, il coefficiente è stato fissato all’8%: per ogni 100 euro prestati, 8 euro di riserva. Un gioco pericoloso, se portato oltre certi limiti: si accreditano conti correnti con valori che si comporranno in futuro, attraverso il rimborso cadenzato del debito da parte dei beneficiari. Quando il numero dei beneficiari insolventi – o potenzialmente tali – diventa rilevante, per la banca iniziano problemi seri. È il paradigma di Lehman Brothers, che a distanza di dieci anni dal grande crack sembra non aver insegnato nulla ai governanti sia europei che americani.

Ma non è tutto. Una banca non può aspettare dieci, venti, trent’anni per rientrare del capitale anticipato e guadagnare con gli interessi. Ecco allora la soluzione: cedere il credito ad un’entità terza, che lo spezzetta, lo impacchetta, lo imbelletta in un nuovo strumento finanziario pronto a conquistare il mercato degli investitori. Magia: un asset illiquido, aggiogato nel bilancio di una banca, si trasforma in un titolo negoziabile sul mercato.

Inizia una nuova avventura per quel credito (o quel debito, ovviamente), oppure la sventura di ignari risparmiatori, che nel frattempo hanno finito per sottoscrivere, loro malgrado, titoli ad alto rischio.

Un grande casinò, la roulette gira finché un qualsiasi imprevisto non fa andare tutto per aria. Cicli che si aprono e cicli che si chiudono, avrebbe ammonito Hyman Minsky. Si può far fallire una banca? E se questa banca è troppo grande quali conseguenze ci potrebbero essere per l’economia di un territorio o di una nazione (too big to fail)? Arriva l’ora dello Stato. E dei cittadini. Soldi pubblici, di tutti, per rimediare alle spericolatezze finanziarie di pochi. Senza contare l’ultima decisione per la Popolare di Bari, si stima che dal 2012 ad oggi, in Italia, l’esborso netto per i salvataggi bancari sia stato di circa 24 miliardi di euro. Niente, comunque, a confronto di quanto ha speso la Germania, sullo stesso versante, dal 2008 al 2016: 197 miliardi di euro, il 7% del Pil del Paese.

Gli edifici che ospitano le banche, dalle sedi centrali fino alle più piccole filiali di periferia, sono spesso edifici di pregio, nei centri dei paesi e delle città, comunque molto curati. Devono trasmettere un’idea di potere e di solidità. Dietro quei marmi, però, si nasconde un sistema tanto potente quanto fragile. Potente perché nelle nostre società l’offerta di denaro è diventata sempre più una prerogativa privata (con linguaggio tecnico, diremmo che il denaro è «variabile endogena» del sistema). Fragile perché la caduta di limiti significativi alla creazione di denaro da parte delle banche, insieme alla deregolamentazione dei mercati finanziari ed all’esplosione di «mercati paralleli», ha reso le stesse – e con esse l’economia nel suo insieme – costantemente esposte al rischio di crack rovinosi.