È una questione di classe. O, che forse è più corretto, uno dei tanti approdi della lotta di classe alla rovescia, dei ricchi contro i poveri. Non è stato sempre così.
Il «taglio delle tasse», da decenni a questa parte, è il principale assillo dei neoliberisti. Anche quando le crisi, come quella in atto, richiederebbero interventi redistributivi e più tasse per chi può pagarle.
Nei secoli e nei millenni passati quando la situazione lo richiedeva – guerre, terremoti, per l’appunto epidemie – i prìncipi mettevano le mani sulle fortune dei possidenti, con nuove tasse o provvedimenti di esproprio, senza distinzione tra ricchezza dei laici e ricchezza dei chierici (si ricordi il caso della “Cassa sacra” istituita dal re di Napoli dopo il terremoto del 1783). Adesso, invece, le situazioni emergenziali diventano l’occasione per un’operazione opposta: il taglio delle tasse agli abbienti ed alle imprese. Il mitico ceto medio e quelli che «creano il lavoro».

Che poi, nel primo caso parliamo ormai di una minoranza della società e, nel secondo, di imprese che il lavoro tutt’al più lo domandano, quando ce ne sono le condizioni (se c’è chi domanda i loro servizi e i loro prodotti), ma assolutamente non lo «creano» (se c’è una macchina che fa risparmiare lavoro, il capitalista sceglie sempre la macchina, come ricordava Carlo Marx a proposito della «caduta tendenziale del saggio di profitto») .
Il governo dei migliori pensa comunque che nella situazione data, con una crisi che morde come sempre gli ultimi della società (lo ricordava bene Papa Francesco nella sua lettera ai Movimenti popolari lo scorso 16 ottobre), si possano sacrificare otto miliardi di euro per «abbassare le tasse» (l’intenzione è nel Documento programmatico di bilancio inviato a Bruxelles).

A chi? Ad una minoranza di abbienti della società, ovviamente. Anche perché i poveri sono per definizione degli «incapienti», il loro problema non è l’imposta sul reddito ma il reddito stesso, che non c’è o è del tutto insufficiente a far fronte ai bisogni materiali della vita.
Scendiamo nel merito e diamo qualche numero.
L’idea del governo, suffragata da un documento approvato da tutti i partiti di maggioranza nelle Commissioni Finanze di Camera e Senato dello scorso 30 giugno, sarebbe quella di ridurre l’aliquota marginale del 38% dell’Irpef al 34-35% (redditi da 28.000 a 55.000 euro). Fino a 28 mila euro di reddito, quindi, nessun beneficio. Fuori l’80% dei contribuenti. Guadagnerebbero invece da 600 a 1000 euro all’anno i contribuenti con reddito compreso tra i 28 mila e i 75 mila euro all’anno. Il 20% del totale. Con beneficio più sostanzioso per una platea ristretta del 2,2% degli stessi. Se prendiamo la sanità, solo per fare un esempio, con questa «riforma» le tasse si taglierebbero ai primari ospedalieri, non certo agli infermieri.

C’è discussione però nel governo. Confindustria preme affinché a guadagnare dal «taglio delle tasse» siano maggiormente le imprese. Il vecchio e caro «cuneo fiscale». Chiedono che la forbice dell’esecutivo addenti anche i contributi previdenziali e l’Irap. Non bastano i soldi a fondo perduto, i bonus e gli incentivi, i denari «dell’Europa».
Loro che «creano» il lavoro non possono badare – o badare del tutto – anche alla pensione dei lavoratori ed alla sostenibilità del sistema sanitario nazionale (il gettito dell’Irap è attribuito quasi tutto alle regioni per sostenere la sanità pubblica).

L’imprenditore, «rischiando» in proprio, concorre al benessere complessivo della società («Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse», aveva ammonito Adamo Smith). Se c’è crisi, bisogna mettere l’imprenditore nelle condizioni di far ripartire l’economia. Mica parliamo di filantropi. E un governo sensibile ai «bisogni dell’economia» non può che prendere in considerazione certe richieste.
E se togliere di mezzo l’Irap non è possibile, almeno la si riduce. Segnali alle imprese, che è la stessa cosa che dire «segnali all’economia» o «segnali ai mercati». Perché l’impresa è impersonale, come la sempiterna «mano invisibile». Il governo delle «migliori» opportunità per chi è abituato a cadere sempre in piedi.