Ieri mattina ci ha lasciato Maurizio Calvesi, uno degli storici dell’arte e dei critici più autorevoli del Novecento italiano, intellettuale e umanista, pensatore profondo, dall’intelligenza adamantina, capace di penetrare e di leggere l’arte cogliendone e restituendone le complessità con l’unione di doti straordinarie e talvolta contraddittorie quali l’acume e l’intuito, la sensibilità e la lucidità. La profonda conoscenza storico artistica, unita all’esperienza militante dell’arte, la stretta relazione tra impegno culturale, produzione scientifica, ruoli istituzionali e la vita –riassumibili nelle immagini della sua bella casa a via dei Pettinari, dove ha vissuto con sua moglie Augusta Monferrini, e dove ha ospitato la sede della rivista Storia dell’Arte, ricchissima di opere d’arte antica e moderna e di libri custoditi nella libreria appositamente costruita da Mario Ceroli- fanno di Maurizio Calvesi una figura che oggi ci appare gigantesca, pari a quella di pochi altri intellettuali del secolo scorso.

Classe 1927 Calvesi si laurea a Roma con Lionello Venturi con una tesi su Simone Peterzano, il maestro di Caravaggio, pittore quest’ultimo di cui sarà illuminato studioso e di cui ha offerto le prime fondanti interpretazioni iconologiche e ricostruzioni biografiche, con numerosi articoli e libri. Nel quartiere dove trascorre la sua infanzia, Prati, conosce e frequenta Giacomo Balla e Filippo Tommaso Marinetti, va in bicicletta –una passione che non lo abbandonerà mai- e scrive poesie futuriste.  I primi incarichi arrivano a metà degli anni cinquanta come ispettore di Soprintendenza a Bologna, ove frequenta Cesare Gnudi, Francesco Arcangeli e Denis Mahon, e poi come vice direttore della Galleria Nazionale di Arte Moderna, quando collabora con la direttrice Palma Bucarelli e frequenta Giulio Carlo Argan che ne caldeggerà il passaggio all’Università. Ordinario presso l’Università di Palermo, dal 1976 è professore ordinario e poi emerito presso il Dipartimento di Storia dell’Arte della Sapienza di cui sarà direttore.

I corsi monografici, frequentati da generazioni di studenti, affrontavano le opere di Piero della Francesca, Beato Angelico, Caravaggio (Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990), Durer (la Melanconia di Albrecht Durer, Einaudi 1993), Giorgione, Parmigianino, Raffaello, Michelangelo e la cappella Sistina, l’architettura e la scultura di Bomarzo (Gli incantesimi di Bomarzo, il Sacro Bosco tra arte e letteratura, Bompiani, 2000), le illustrazioni e l’autore dell’Hipnerotomachia Poliphili (La pugna d’amore in sogno di Francesco Colonna romano, Lithos 1996). Ma Calvesi non ha mai cessato di seguire con altrettanto entusiasmo e risultati brillantissimi in parte ancora da valorizzare, i suoi interessi nel campo dell’arte contemporanea regalandoci saggi di grande spessore su De Chirico (La metafisica schiarita, Feltrinelli 1982), le avanguardie (Le due avanguardie, Laterza 1975), Marcel Duchamp (Duchamp invisibile, Officina edizioni 1975 e Un’estetica del simbolo tra arte e alchimia. Duchamp invisibile, Maretti 2016), articoli sulla pittura ed i pittori romani degli anni Sessanta (Schifano, Tano Festa, De Dominicis) e su Alberto Burri, la cui fondazione è stata da lui promossa e diretta.  Il filo conduttore che unisce temi e argomenti così vasti, oltre ad una curiosità intellettuale non comune, è quello di una ricerca che non si limita  all’analisi puramente formale delle opere d’arte utilizzando strumenti e metodi molteplici: l’interpretazione psicoanalitica delle prime ricerche fino allo studio dei documenti d’archivio, la contestualizzazione culturale e storica, e soprattutto il rapporto con la letteratura, inseparabile quest’ultima secondo il pensiero di Calvesi dalla produzione figurativa.

Una naturale passione per l’editoria e la stampa, accompagnata ad una fede incrollabile nella parola scritta e nella comunicazione culturale,  condussero Calvesi a collaborare con giornali (L’Espresso e Corriere della Sera Art e Dossier) e a dirigere numerosi periodici tra cui spicca Storia dell’Arte, tra le principali riviste scientifiche del settore storico artistico, di cui egli fu fondatore, insieme a Giulio Carlo Argan e Oreste Ferrari, e direttore fino a tempi recentissimi.

Insignito di prestigiosi titoli e premi (fu direttore della Biennale, dal 1988 Accademico dei Lincei, dal 2011 Accademico di San Luca, vinse il Premio Balzan nel 2008), Calvesi mantenne nel tempo il suo carattere timido, protetto da modi eleganti e riservati che contribuivano a creare l’immagine di professore di inarrivabile distanza, ma le difese erano pronte a crollare non appena egli intuisse una dote, sia essa artistica o intellettuale, una condivisione di interessi, di passioni per la cultura e per l’arte. Il suo eloquio diveniva pieno di entusiasmo e buon umore se si trattava di discutere un nuovo documento, una nuova lettura, un nuovo dipinto, e l’incoraggiamento a proseguire nelle ricerche e a pubblicare non era mai un formale gesto di lode ma sempre un concreto indirizzo in cui impegnarsi insieme, con il suo appoggio ed aiuto. Calvesi è stato, come gli innumerevoli suoi allievi possono ancor oggi testimoniare, non solo un grande intellettuale ma anche un vero maestro, capace di formare generazioni di studiosi e di indirizzarne senza perentorietà ma con il semplice esempio, ricerche e obbiettivi.

Le polemiche che hanno impegnato gli storici dell’arte delle scorse generazioni, frutto della piena adesione e partecipazione alla vita artistica e civile che contraddistingueva i nostri predecessori, ha forse contribuito a confondere ed a rendere meno evidente il pieno riconoscimento del loro ruolo nella storia della cultura italiana. Eppure oggi, che molti dei grandi storici e storici dell’arte del Novecento ci hanno lasciato, possiamo comprendere appieno quanta importanza essi abbiano avuto nel costruire un tessuto culturale, nel far funzionare e fiorire le istituzioni quali le Accademie, le Università, le Soprintendenze, i Musei, dandogli grande dignità ed impedendo che forze esterne fedeli a logiche estranee a quelle proprie di questi istituti ne invadessero il campo.  L’autorevolezza di Maurizio Calvesi non si misura soltanto sul metro dell’erudizione, dell’intuizione scientifica e della singola scoperta sensazionale, ma proprio su questo lavoro costruttivo di difesa del valore della storia dell’arte come disciplina universitaria e del patrimonio culturale italiano, un’azione condotta non con singole iniziative, per quanto notevoli, ma nella quotidiana immedesimazione e fedeltà al proprio ruolo, e nella costante, entusiasmante ricerca della qualità che ha sempre guidato il suo giudizio critico. Con la scomparsa di Calvesi si perde un pezzo di quel tessuto culturale italiano insostituibile fatto di poliedricità d’interessi, fierezza battagliera, e capacità di cogliere i profondi legami che uniscono i fatti artistici anche in secoli ed in contesti molto distanti. Non se ne perde e non se ne perderà mai la memoria di cui le nostre generazioni, cresciute nell’era della specializzazione e dell’erudizione, del digitale e della comunicazione, sono ora chiamate a essere testimoni, come piccoli eredi sulle spalle dei giganti.