Ho letto come sempre con interesse gli interventi dei colleghi Azzariti e Villone usciti nei giorni scorsi su questo quotidiano, oggetto peraltro di un attacco inedito nell’attuale legge di bilancio.

Vorrei segnalare anzitutto il rischio di un’involontaria eterogenesi dei fini. Se si eccede nel sostenere la tesi di una continuità nella marginalizzazione del parlamento e si svaluta l’indubbio salto di qualità (in peggio) nel procedimento di questa legge di bilancio, ossia (A) il voto su un maxi-emendamento di esclusiva origine governativa, (B) non conoscibile ai senatori nel momento del voto, si finisce con lo svalutare il senso del ricorso del gruppo Pd. In questo modo non si rende affatto il processo degenerativo più facilmente reversibile. Come e perché dovrebbe infatti intervenire un’inversione di tendenza? Solo con un appello volontaristico alla politica? Immagino che pur tra le tante diversità di analisi che ci dividono, il collega Azzariti non abbia alcuna intenzione di favorire un esito del genere.

C’è invece bisogno di una novità istituzionale ed in questo senso, al di là delle diverse opinioni dottrinali e anche di schieramento politico, essa può essere rappresentata in questa fase solo dall’elemento garantistico del riconoscimento come potere dello Stato di un gruppo parlamentare (o del singolo parlamentare). Il ricorso non è avventato perché è difficile immaginare che vi possa essere una seria garanzia nel far valere le prerogative dell’articolo 72 della Costituzione di fronte all’indubbio continuum maggioranza-esecutivo che caratterizza le nostre assemblee e che si rafforza in occasione della legge di bilancio se le presidenze di assemblea agiscono come appendice del governo, tanto più se vien posta la questione di fiducia.

Mi sembra di capire che il collega Villone colga questa preoccupazione, e che perciò preveda ma anche auspichi l’ammissibilità, assecondando questo percorso garantista. Vorrei però precisargli nel merito che nessuno richiede uno tsunami, ossia l’incostituzionalità della legge di bilancio e quindi l’esercizio provvisorio. Il conflitto rileva l’annullamento del ruolo del senato, ma lascia libera la Corte nel modulare gli effetti, preoccupandosi soprattutto di evitare che ciò si ripeta. È pertanto possibile attendersi anche un esito positivo nel merito proprio perché il ricorso è stato posto con criteri di moderazione e ragionevolezza.

Stefano Ceccanti

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La continuità nella marginalizzazione del parlamento, purtroppo, non è una «tesi», ma un «fatto» che ha caratterizzato l’ultimo venticinquennio di vita repubblicana. Così com’è un fatto che le diverse maggioranze che si sono succedute hanno contribuito – ciascuna con una sua diversa responsabilità – a tale svalutazione del ruolo dell’organo legislativo. Negarlo non ha senso e con Gramsci potremmo ricordare che «la verità è sempre rivoluzionaria».
Ciò detto sono perfettamente d’accordo con Stefano Ceccanti nel ritenere che l’ultima legge di bilancio abbia rappresentato un «salto di qualità in peggio» (il titolo del pezzo ricordato è infatti «L’ultimo strappo»). Quel che non capisco è perché da questo non si traggano le necessarie conseguenze politiche e ci si affidi esclusivamente alla soluzione giurisprudenziale.
Non vorrei che la via del ricorso alla Corte costituzionale – ipotizzando un conflitto dalla dubbia ammissibilità – sia stata intrapresa solo per evitare di fare i conti con la realtà che imporrebbe un’inversione di tendenza, come anche Ceccanti, a questo punto, mi sembra auspichi.

Gaetano Azzariti