Lontano dal traffico dei nuovi percorsi espositivi al cuore dell’espansione del Museum of Modern Art, nelle gallerie sotterranee, adiacenti alle sale cinematografiche del Museo è un vero tesoro nascosto, Private Lives Public Spaces, un’imperdibile mostra dedicata agli home movies custoditi nella collezione del MoMA. Girato di Douglas Fairbanks, Ken Jacobs, Andy Warhol, Russ Meyer, Cindy Sherman e Peggy Awesh è esposto insieme e decine di film di autori non professionisti, spesso anonimi, in un caleidoscopio d’immagini – intime e non, esotiche e famigliarissime, belle e brutte… il cui effetto cumulativo è un’esperienza di cinema profondamente toccante. Da visitare e rivisitare più volte. Ne abbiamo parlato con i curatori, Ron Magliozzi e Brittany Shaw.

Da dove è nata l’idea della mostra?

(Ron Magliozzi). Gli home movie si sono accumulati nella collezione nell’arco di 80/90 anni a partire dagli anni trenta, con l’acquisito l’archivio Biograph. Quando acquisiamo una collezione, come quella di Douglas Fairbanks, trattandosi di una celebrity, chiediamo automaticamente anche gli home movies. Ma succede che ci chiamino perché qualcuno è mancato lasciando una cantina piena di film – come nel caso di un collezionista del Connecticut – che, insieme a rarissime copie in nitrato di film di Clara Bow, aveva uno scaffale di pellicole provenienti da mercati dell’usato, senza indicazione di provenienza. Abbiamo deciso di includere questa installazione nella riapertura, per dar visibilità a una parte trascurata della collezione. Tutto quello che vedi è stato preservato appositamente. Non credo che gli home movies vadano proiettati in una sala. In un cinema possono essere noiosi, ma in una galleria come questa il fattore noia è mitigato dalla quantità di materiale – quarantasette ore. L’introduzione del cinema nelle gallerie espositive è stata parte del ripensamento in vista della riapertura del Museo. Questo Film Center, adiacente alle nostre sale cinematografiche, ci sembrava il luogo ideale per mettere in scena la dialettica tra l’esperienza della sala e quella non, il gigantesco e la miniatura. Credo che, oggi, i social media creino il presupposto perché il pubblico possa capire gli home movies, che dei social sono un po’ dei precursori. D’altra parte è stato proprio il digitale ha permetterci di rendere visibili i film che ci circondano. E i social, in teoria, ne rendono più plausibile la fruizione.

Ron Magliozzi e Brittany Shaw

Come avete ideato l’allestimento?

(Brittany Shaw). Questo, per esempio, è «il muro di famiglia», in cui volevamo evocare il feeling di un muro pieno di foto di famiglia accumulate negli anni, di tagli, formati, stili diversi. Un’altra ispirazione molto importante è stata la mostra storica che il MoMA ha dedicato a Edward Steichen, nel 1955, The Family of Man.
(R.M.) Abbiamo riservato gli schemi più grandi al materiale che ci sembrava più interessante. Oltre al muro di famiglia, agli home movies di artisti e a quelli di registi famosi, abbiamo uno spazio dedicato a immagini più etnografiche, di viaggio. In un altro angolo ci sono quelle a sfondo politico – la summer of love del 1967, a Tompkins Square Park; lo sciopero della Disney del 1941, girato da uno degli animatori dello studio, John Hubley; fino alle manifestazioni contro la guerra del Golfo. Tutte le immagini dell’allestimento state girate in pellicola- 8mm Super8 16mm e anche 35mm- e digitalizzate per la Mostra.

Idealmente, come vorreste che vengano visti?

(R.M.) Come i film che abbiamo introdotto nelle gallerie superiori, non ci aspettiamo che vengano guardati nella loro interezza, anche se abbiamo messo delle panche di fronte a quelli più lunghi, come quello girato da un pompiere di Pittsburgh che ha filmato per anni la vita del suo isolato in un famoso quartiere poi demolito. L’idea è di soffermarsi qua e un po’ là. Nella disposizione dei materiali abbiamo cercato di cercare delle associazioni…
(B.S.) L’accumulo, persino le ripetitività di certi soggetti, valorizza la qualità toccante delle queste immagini. La loro universalità – il Natale su tre schermi allo stesso tempo, dei bambini che giocano in strada…Non per semplificare troppo, ma ci sono delle connessioni che si stabiliscono facilmente.

C’è qualcosa che li accomuna nello sguardo sul mondo?

(R.M.) Ho passato cinquant’anni guardando cinema narrativo, cinema commerciale e cinema d’artista. Per me gli home movies rappresentano un corpo d’immagini completamente a sé stante e per certi aspetti rivoluzionario. È «il cinema della gente» – che gira quello che vuole, senza censura. Io spero che il nostro show funzioni anche come una provocazione. In genere si pensa agli home movies come a dei documentari. Ma secondo me contengono anche della poesia, il loro valore va aldilà. Sono oggetti di documentazione ma anche dei misteri. E in gran parte sono film orfani, visto che spesso non possono più essere proiettati. Con questa installazione vorremmo ispirare altri musei a seguire il nostro esempio. È la prima volta che all’home movie viene dedicata un’iniziativa di questa scala, che li si mostra nel contesto dell’arte cinematografica.
(B.S.) Molte delle cineprese amatoriali con cui venivano girati erano dotate di manuali che emulavano lo stile di Hollywood. Ma spesso il risultato delle riprese è esattamente l’opposto, quasi anti-hollywoodiano – una specie di avanguardia accidentale. Alcuni degli errori sono molto belli.
(R.M.) Quando parlo di poesia, non intendo nel senso tradizionale della parola. Ma, specie se raggruppati insieme, sono filmati poetici. È la poesia del tempo, del suo trascorrere, del movimento…Individualmente sono dei souvenir privati ma insieme diventano un’altra cosa. Con questa installazione speriamo di riuscire a comunicare che in questo corpo d’immagini c’è qualcosa di profondo. Che è simile ai social media ma diverso. Perché la pellicola imponeva limiti diversi di quelli del video.
(B.S.) In più questi due medium hanno in comune il problema della preservation. E nel caso dei social la situazione è ancora più difficile. Per me, la forma più simile agli home movies sono le Instagram stories. E nessuno le conserva. Scompaiono dopo 24 ore! I film li facevi sviluppare e stampare e invitavi gli amici o i famigliari per guardarli. Poi li mettevi nell’armadio e stavano lì, dimenticati. Con i social non c’è nemmeno l’armadio dove dimenticarli. È ancora più effimero. È interessante immaginare un curatore che metta insieme uno show come questo, tra cinquant’anni, a base di social media. Che tipo di ricerca e di accesso avrà? Mi preoccupa perché non credo che quello che filmiamo con i nostri telefonini avrà il destino degli home movies.

L’installazione contiene anche film di artisti, come Warhol, Ken Jacobs, Ernie Gehr…La dimensione del privato e del quotidiano è spesso parte integrante loro lavoro. Come avete scelto i pezzi da includere?

(R.M) Abbiamo chiesto agli artisti stessi che ci dessero pezzi che consideravano home movies. Per esempio, quello di Cindy Sherman non era mai stato visto prima. Lo stesso vale per Ken Jacobs e per quello che ci ha mandato la Warhol Foundation…cui abbiamo chiesto specificatamente se Andy faceva home movies
(B.S.) Il film di Andy è uno dei due soli che ha realizzato che si possono descrivere come home movies. Spesso gli artisti usano home movies come ispirazione o pratica. Nel caso del film di Ernie Gehr, Daniel …Ernie ci ha detto che all’inizio erano tutti primi piani ma, quando suo figlio ha cominciato a crescere, ha dovuto cambiare estetica.

Il cuore dell’installazione è però riservato a non registi.

(B.S.) Anche i miei home movies sono qui, come quelli della famiglia del Chief Curator del Dipartimento di Cinema Rajendra Roy…
(R.M.) Ci sono alcuni dei film sui bambini che sono bellissimi come quello di Edward Steichen. È il pezzo intorno a cui abbiamo montato il resto del «muro di famiglia». Lì accanto c’è il film di una famiglia afroamericana che sembra uscita da Il grande Gatsby. Per mettere insieme l’installazione, abbiamo esplorato quasi tutta la collezione di home movies del Museo. Ci vedevamo ogni venerdì, con il proiezionista e una grossa pila di film di cui non sapevamo nulla.