L’appuntamento è in una pasticceria storicamente «classica» della città, una domenica mattina d’estate. Perché Antonia, gli chiedo subito. Antonia, cioè Antonia Pozzi, poetessa poco conosciuta, milanese, figlia dell’alta borghesia, morta suicida nel 1938 a ventisei anni senza riuscire a pubblicare nessuna delle sue poesie guardate con sufficienza dal mondo letterario (tutto maschile) del tempo, che il padre fascista distruggerà censurando l’insopportabile (per lui) male di vivere e l’irruenza di quella «scandalosa» figlia.

 

 

 

Il film di Ferdinando Cito Filomarino, Antonia, racconta tutto questo ma non nella forma della biografia tradizionale. Le sue immagini cercano piuttosto una corrispondenza con l’universo poetico della protagonista che diviene lo specchio, o il controcampo della sua esistenza, dei suoi amori impossibili, dei gesti ribelli, delle angosce sul futuro, di una condizione emozionale personalissima e poco accordata alle convenzioni sociali a cui ogni buona figlia e fanciulla doveva conformarsi. Una bella sfida per un’opera prima e per un giovane regista il cui talento si era già rivelato nel corto Diarchia, gioco amoroso divertito di morbida sensualità, e che qui conferma uno sguardo speciale, molto lontano (per fortuna) dal format di un cinema italiano di «giovani» più o meno alla ricerca di sé. Pure se poi questa sua Antonia dei vent’anni incarna il sentimento universale di confusione e attese nella parola e nel corpo che si incontrano, nel respiro dei gesti e nel movimento delle immagini punteggiate dalla metrica del montaggio di Walter Fasano.

 

 

 

Adolescente (è la brava e giovanissima Linda Caridi) sui banchi di scuola Antonia è innamorata del professore di greco, o forse della sua lettura di versi antichi. Diventeranno incontri clandestini, baci rubati all’angolo della strada finché la famiglia metterà fine a questo amore sconveniente. Antonia scrive lettere, poesie, un diario: le sue parole sono dolcemente taglienti, cadono giù sul foglio spogliando l’anima, quasi impudiche ma con riserbo dicono di sentimenti e desideri, e di un’irrequietezza che è quella del suo tempo. Cito Filomarino compone le immagini come i versi della poetessa, frammenta la narrazione, suggerisce, fa parlare i dettagli, segue il suo sguardo, il suo movimento intimo: frasi, fisicità, slanci improvvisi, traiettorie sfuggenti di una vita.

 

 

 

«Antonia» più della biografia sembra cercare la vita della protagonista nella sua scrittura poetica.

Avevo in mente sin dall’inizio un ritratto d’artista più che la storia della vita di un artista. Antonia ha una vita molto normale, è il modo in cui la vive la chiave interessante. Nel caso degli artisti, e dei poeti soprattutto, la poesia e la vita finiscono con essere la stessa cosa. Per lei forse ancora di più: lo sfogo della vita di Antonia avviene nella parola, lì trovano voce i suoi tormenti. L’evocazione del mondo poetico ha generato parte della concezione del film. Si leggono anche alcune delle sue poesie ma la struttura narrativa nasce dalle sue lettere, dai diari, dalle poesie, dalle fotografie. Antonia nella scrittura si riferiva a momenti molto specifici della sua esistenza che rivelano inevitabilmente anche la sua arte. Una dipende dall’altra e viceversa.

 

 

 

Il racconto inizia con Antonia ancora studentessa e arriva alla sua morte. La narrazione procede per frammenti, e anche visivamente inquadri spesso dei dettagli, le mani, il foglio con le parole, l’evocazione dei suoi sogni.
Nella poesia di Antonia c’è sempre un elemento di ambiguità. Lei non vive quasi mai la bellezza del presente ma immagina sempre quanto accadrà dopo: se parla di un viso che ha davanti a sé, il volto amato, pensa subito a quando non ci sarà più… Mi sembrava che accostare dei dettagli mi permettesse di ritrovare il senso e il movimento delle sue poesie. La sua scrittura vive nella relazione tra piccole e grandi cose. Per questo mi piaceva l’idea di mostrare come Antonia si muoveva nel mondo, una sua fisicità plastica che rivelasse qualcosa di importante. La cosa bella nel fare un ritratto d’artista è avere delle scuse per immaginare come funziona il suo processo di creazione, e renderlo attraverso un altro atto creativo che è quello del cinema in cui possono convivere vari strati, presente e futuro. All’inizio Antonia appare come un’eroina tormentata, aveva dodici anni quando il fascismo prende il potere, ed è cresciuta in quel clima. Lei viveva al di fuori della politica anche se era inevitabile che questa entrasse nelle case, nella vita delle persone, nel modo di essere degli uomini e delle donne. Suo padre col suo agire autoritario rappresentava quel pensiero fascista, e anche la madre con la sua passività. Antonia di tutto questo ne parlava poco ma nei suoi scritti fa riferimento alle leggi razziali, quando i suoi amici, i Treves, sono costretti a fuggire. Alla fine però era già troppo distante dal mondo e dagli altri esseri viventi, scriveva anche molto poco.

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La tua lettura ci restiuisce una figura implosa, è come se ci fosse sempre un confine invisibile tra i suoi impulsi interiori e la sua postura nel mondo.
Molto dipende dalla sua estrazione sociale, un’alta borghesia milanese con regole di comportamento molto rigide. Più in generale i poeti, e il cinema non ne ha raccontati molti, spesso sono persone normali che si mimetizzanto nel contesto. Tutto succede dietro le quinte o dentro di loro, e lo stesso accade a lei.

 

 

 

Antonia Pozzi viene vista da molta critica letteraria come un’autrice «minore». E la poca considerazione per la sua poesia appare come uno dei suoi più grandi dolori. All’epoca si ha l’impressione che subisca anche il fatto di essere donna, e quell’idea che la poesia femminile non ha valore.
In vita Antonia non è riuscita a pubblicare le sue opere. La sua poesia era molto intima, e legata a un’urgenza soggettiva che in quel momento non sembrava avere alcuna ragione di essere. Sarà Montale a pubblicare la prima edizione seria della sue poesie che il padre dopo la sua morte aveva manomesso e censurato. Ma c’era la guerra, lei era morta, e anche a distanza di anni il suo mondo appariva troppo astratto.

 

 

 

La storia di Antonia è anche un racconto della giovinezza, una sorta di romanzo di formazione senza esiti positivi di una crisi e di una profonda solitudine.
In questo senso per me la sua esperienza è molto attuale. Quella di Antonia è una generazione confusa che mi fa pensare ai suoi coetanei oggi. Non capisce cosa fare, se ascoltare i propri desideri o conformarsi al mondo che i padri hanno preparato per loro. Antonia ne incarna l’apoetosi, la figura più appassionata.

 

 

 

È questo che ti ha attratto in lei?
Sì insieme a molte altre cose, il paesaggio che la circonda, Milano e fuori, luoghi che conosco bene e che mi appartengono. La difficoltà più grande è stata invece confrontarsi con una persona realmente esistita anche se a me non interessava trovare delle risposte su di lei, spiegare il suo suicidio. Era piuttosto la realtà della sua poesia a affascinarmi, una dimensione che è anch’essa legata a questa città, dove vedi palazzi che sembrano anonimi, e quando apri il portone rivelano dei meravigliosi e inaspettati giardini.