Negli ultimi anni, come ben sappiamo, si sono rafforzati i confini di una certa letteratura delle radici. Le radici, le foglie, le fronde, i tronchi, le cortecce sono sempre più comparsi accanto ai soggetti e ai temi più cari agli scrittori, quali la casa, le porte, le stanze, il tempo che passa, i dolori, le madri e i padri, gli amici, e i loro opposti.

SE ERA ECCEZIONE INOLTRARSI nelle pagine di romanzi nei quali l’elemento vegetale e animale fossero onnipresenti, oggi una parte non minoritaria delle storie che possiamo comprare in libreria partono invece proprio da queste dimensioni, talora fisiche, altre volte metafisiche, simboliche.

ANCHE IN POESIA SI ASSISTE allo stesso cambiamento, gli alberi anzi non sono mai stati così tanto presenti nelle raccolte di liriche, e talora diventano addirittura robuste voci di richiamo, come certi componimenti che alcuni autori usano per la promozione dei loro diari in prosa, ma di questo tratteremo in altre occasioni.

DUE RACCOLTE DI RECENTE fattura sono Tutta la terra che ci resta della poetessa torinese Silvia Rosa (Vydia editore, collana Nereidi, Monteccasiano) e Sintesi delle radici di Antonia Santopietro (Edizioni Ensenble, collana Alter Poesia, Roma), anima di Zest Letteratura Sostenibile e della rivista Tellus. Due donne, due viaggi nelle sorgenti. Non è facile per me avventurarmi in questi versi, da una parte perché sono temi che scavo da molti anni, dall’altra perché parto spesso prevenuto: la proliferazioni di poesie quanto di saggi su questi temi mi ha insegnato, purtroppo, che più ce ne sono e più bassa è la probabilità di incontrare qualcosa di originale.

MA OGNI LIBRO E’ UNA PRIMA volta, proviamo dunque a lasciarci andare soltanto vivendo nell’occhio del lettore che penetra queste selve mosso null’altro che da autentica curiosità. Prima di tutto noi poeti siamo insicuri. Proprio per rassicurare quest’anima fluttuante, accanto si agita lo spirito ambizioso di chi vuole lasciare un punto, una scritta profonda su qualche parete di montagna. Così queste nostre sottili collezioni di segni si adornano di prefazioni, postfazioni, introduzioni, note introduttive et cimelia; ecco, per grazia suggerirei di toglierci una volta per tutte il fastidio, ancora valgano per quelle antologie che offrono ai lettori percorsi che attraversano i decenni, ma per le singole raccolte proporrei di concordare una eradicazione di ogni tentativo di storicizzazione. Alleggeriamoci, proviamo a vivere la poesia con meno seriosità e meno ambizione.

LA POESIA DI ANTONIA Santopietro tende all’oracolo, parla chiaro ma poi si socchiude in termini e aggettivi intenzionalmente stralunati, come in questi passi, tra gli altri: Porto il residuo delle giornate umbratili (da Le geometrie del tempo, pag. 32), Grezzi porti d’incanto, voci cariatidi / paradisi che ho perduto nel logorroico / inverno (da Serpente, pag. 37).

TUTTO VIENE RIDOTTO a qualcos’altro, come se la realtà avesse sempre un doppio fondo, un significato altero che va ricercato, un enigma da risolvere per capire meglio, per capire a fondo. Le tracce delle sue letture sono talora emergenti, come questo esordio, C’è solitudine in un grano (da Nostalgia, pag. 52), che ci ricorda macroscopicamente la poesia di Mariangela Gualtieri. Alle poesie si affiancano alcune prose poetiche, tre Brevitas; leggendole trovo un respiro, per quanto minuto, che potrebbe promettere una scrittura più vasta, in futuro magari potrebbe diventare qualcosa di maturo e, magari, più aperto al mondo e ai tanti modi di dirlo.

LA RACCOLTA SI CHIUDE con una lunga poesia-manifesto, Grammatica sterile dell’Antropocene, che però finisce per dire troppo, come se il poeta si stagliasse dal pulpito a ricordare a chi legge che le cose proprio non vanno. Il componimento che eleggerei a emblema s’intitola L’osso (pag. 34), senza dichiararlo una degna sintesi dell’intera opera: Dell’amore posso dire poche cose, / una di queste è che assomiglia ad un osso / o anche alle fauci leonine / e a un pezzo di deserto, / infine assomiglia alla costola del vento / e di questo ha preso il suono. Da rileggere.

PROPRIO DAL E ATTRAVERSO il corpo, come ci si attende dalle poesie di una voce femminile, cresce la raccolta di Silvia Rosa, che qui adotta il senza titolo per le stanze del suo teatro in versi. Che cos’è tutta questa terra che ci resta? Un’invocazione ambientalista? Una dichiarazione esistenziale? Una considerazione geopoetica? Una resa? Oppure un speranza sull’urlo del baratro? Non è scontato rispondere. Forse il corpo residuale sa ancora / nella sua saggezza ormai inceppata / come schivare i chiodi delle tenebre, / il danno cieco e i suoi cifrari alieni / nascosti in ogni eclisse, inumare / la membrana che protegge gli animi (pag. 66). Ma potremmo iniziare anche da qui: E poi abbiamo preso il cielo / con la punta delle nostre lingue / l’abbiamo lavorato in una scala di grigi / senza più toni caldi e orientamento / così adesso luccicano i nostri passi falsi / sotto il plumbeo che ci schianta (pag. 15).

CHE COSA STIAMO LEGGENDO? La geografia di un mondo in disordine, dove gli umani hanno perso il filo e la capacità di chiamare le cose col proprio nome, e così provano a recuperare intimità, tentano di riallacciarsi all’anima che vive dentro ogni piccola dimensione, sapendo che tanto è andato perduto.

CE LA FARANNO GLI UMANI a riconquistare il posto che un tempo avevano? Potranno davvero vivere, abitare, rinnovare e salvare quella terra che resta, di cui enigmaticamente si evoca nel titolo? Un giorno / non ci ricorderemo più il senso / dell’orizzonte, il morso del cielo / e la sua traccia turchina sulla retina (pag. 71).