Gli uccelli di passo sono uccelli di passaggio, di stagione in stagione, viaggiano sopra la nostra testa, a volte ad altezza di sguardo. Uccelli di passo è il titolo della raccolta di poesie di Franca Maria Catri, fertile poetessa e professione medica, che esce per la piccola casa editrice Gazebo (postfazione di Mariella Bettarini). In esergo parole di Don Gallo come mimando un abbraccio, un volo: «io vedo che quando allargo le braccia, i muri cadono».

Uccelli di passo, dunque, a cosa si allude? La beccaccia ad esempio, che scende a confondersi con le foglie avvizzite, o la tortora che nidifica tra i rami bassi, o il Martin Pescatore che saltella di pietra in pietra, di palo in palo lungo il fiume, evitando il terreno. Ma soprattutto il gabbiano che passa sull’acqua col suo volo lento e grave. Il gabbiano è color bianco sporco, con la punta delle ali nera e la testa ancora più nera. Celebre il gabbiano in poesia, quel non so novecentesco di Cardarelli, imparato a scuola: «io non so dove i gabbiani abbiano il nido». L’uccello di passo è sempre un migrante, come noi, di terra in terra, di ponte in ponte, di casa in casa, di stanza in stanza, di città in città, di quartiere in quartiere. Come noi che però non abbiamo il volo. Come tanti di noi, non tutti.

Gli esseri umani e gli uccelli di passo nell’attraversamento del mondo si feriscono, hanno bisogno di cure. Franca Maria Catri, ora nell’età senile, oltre che poetessa è stata medico di quartiere a Tor Vergata, è stata a lungo immersa nel disagio urbano, e di questi uccelli in transito, caduti in solitudine, ne ha incontrati tanti, ne ha curati tanti. Ed era inutile chiedere loro dove avessero il nido: Noi poveri è il titolo della sua prima raccolta di poesie, per Fabbri Editori nel 1955. I titoli dei suoi libri tra saggi e poesia, costruiscono già il suo percorso: Quaderni d’un medico, Misura d’uomo, Psichiatria di stato. Ha pubblicato alcuni saggi su leggi proibizioniste e droga, sugli inganni dell’informazione. E ora dall’alto di una vita passata in prima linea ci consegna queste poesie: «questa è la storia/ degli uccelli di passo/ questa è la storia del mare/ sarebbe bastato tagliargli metà del dolore/chiamarli al momento del pane».

Il libro di Franca Maria Catri ci ricorda che «qualunque cosa può accadere/ o niente», e questo è terribile certamente, ma, come nota Bettarini nella sua postfazione, proprio qui s’inscrive l’iter umanissimo dell’autrice che punta i piedi per terra e guarda bene intorno, prima che in alto. Si interroga, ci interroga. Qualunque sia il nostro errore, lo possiamo vedere alla fine perdersi «in mille ferite». E le ferite si curano, cicatrizzano. I medici lo sanno. Lo sanno bene i poeti medici che hanno lasciato un segno nella nostra letteratura: Cechov, Cèline, Bulgakov, Carlo Levi… Li possiamo immaginare dopo un giro in corsia, lì seduti con una penna in mano. E le dottoresse? Dove sono le pagine letterarie delle donne in medicina? Le poesie, i racconti. È tempo che anche loro spicchino il volo. Il libro di Franca Maria Catri ne è testimonianza.

Bisogna che ciascuno lavori alla sua stessa vita, a partire dalla sua stessa condizione, «a ogni colpo di cuore», scrive la dottoressa, è lavoro duro, per cui non c’è giusto compenso ma umano diritto al bene: ci sono aspetti della condizione umana di fronte ai quali ogni medicina, ogni ricetta sbiadisce. Ciascuno voli come può, sembra dirci la poetessa.