Non è tanto la questione della maternità surrogata il punto – scandalo e turpitudine contro natura secondo i governi destrorsi, che pure inneggiano alla natalità: ma che sia una natalità autoctona, non meticcia, al riparo dalle sostituzioni etniche biascicate, bofonchiate dai lollobrigidiani in cravatte pastello e «mocassini assassini» sotto pantaloni alle caviglie: nude – quanto, assolutizzando il discorso, riducendolo all’essenza del soggetto e dei meccanismi di sussistenza che lo animano, la propensione, anzi proprio l’ostinazione dell’individuo a riflettersi, quasi annullarsi nell’altro da sé, purché abbia qualcosa, qualche sparuto prodromo di sé, una parvenza d’occhi, di capelli, e gli consenta di disperatamente, ineffabilmente prolungarsi nel tempo, sopravvivere alla catastrofe del tempo.

QUEST’ALTRO da sé è il figlio, la figlia, che siano concepiti, inseriti all’interno della famiglia tradizionale o dentro i processi di civiltà postmoderni: alla fine di tutto – di tutti i rivolgimenti, di tutti gli accidenti della storia, delle storie minime, polverose, cenciose in cui sono coinvolte le persone comuni, disarmate e zannute, in lotta per la sopravvivenza – resta, resiste la vita, questa necessità dell’essere a essere, come un pollone refrattario, un tubero che spunta inatteso, non voluto, nel caos di luce, di vento, di movimento perenne delle cose; nella vicenda di violenza, di consunzione, di sopraffazione che è il mondo. La petite di Guillaume Nicloux, da oggi in sala è l’inopinata apparizione sul cuore della terra, di questo tubero grinzoso, occhiuto, grazie all’ostinazione narcissica di Joseph (un Fabrice Luchini stupefatto, svagato, un parvenu inconsapevole della vita eppure capace di incidervi) che, morto il figlio Emmanuel, ne proietta l’immagine, il destino, l’amore mancato sulla possibilità di crescere sua figlia, in gestazione dentro Rita, il «mulo» come lei stessa si definisce, ragazza belga che ha accettato di affittare il suo utero perché Emmanuel e il suo compagno Joaquim possano diventare genitori e così perpetuarsi a loro volta nell’altro, nel figlio, la figlia.

C’È UN ISTINTO narcisistico eppure di totale annullamento di sé all’origine dell’amore per l’altro, così Joseph, orfano dell’amore di suo figlio, si mette alla ricerca della «petite» per poter ritrovare se stesso, quell’io che si era perso soprattutto nell’ultimo anno, tra incomprensioni, silenzi, mancanze: è lo stesso Joseph che rimpiange che Emmanuel non si sia mai interessato al suo lavoro, che non sia mai entrato nel suo laboratorio, insomma, che non lo abbia mai riconosciuto pienamente, riconosciuto come soggetto artefice dell’altro. E peraltro un rimpianto simile anima il padre di Joaquim il quale sottolinea di fronte a Joseph che almeno lui ha una figlia che potrebbe dargli un nipote mentre lui no, lui non ha alcuna possibilità che qualcosa di lui passi in un altro.

IL FILM di Nicloux mostra tutto ciò con semplicità, senza nascondere gli ingenui egoismi dei personaggi, tra cui Rita che vorrebbe ancora vivere la sua giovinezza: abbozza in una trasparenza atmosferica, come primaverile, le loro grettezze pecuniarie, le goffaggini e le tenerezze, i loro elementari desideri, come il coito frugale, pensile espletato da Joseph con una donna corpulenta, luminosa, reggendosi a un trespolo, prima di avere orinato davanti a tutti e aver illustrato in lassi di rap il suo piano di paternità a Rita. Nicloux sceglie il registro di una commedia tenue, sempre sulla soglia del dramma, insinuato soprattutto dalle musiche di Einaudi, le quali spesso non sembrano attagliarsi al tenore delle immagini, e altre volte invece innervano le scene di un lirismo semplice, soffuso: quella poesia che è solo del nascere, del vedere nascere, del perdersi immediatamente in quell’altra, in quell’altro che ora se ne sta lì grinzoso e sbraita ossesso e ha la forma di un picchio.